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Villa Bianca è stata ridonata al pubblico, grazie all’intervento di recupero della Provincia di Imperia, a metà gennaio del 2010. Fra poco ricorrono i due anni. Un’altra bella sorpresa è stata la consegna del premio Grock 2011 a Paolo Villaggio, e ancora più di recente alla dimora del grande clown è stato dedicato da Giovanni Lagorio un sito internet che rende ragione della genialità di Carlo Adriano Wettach. Massimo Alberini all’indomani della scomparsa di Grock scrisse un articolo che mantiene intatta la sua freschezza e merita di essere riletto perché contiene informazioni e sfumature che descrivono alla perfezione il personaggio e la nascita di Villa Bianca. Ecco perché lo proponiamo ai nostri lettori corredato di alcune delle splendide fotografie che Alberini ha donato, insieme a tutto il suo Fondo, all’Accademia del Circo, nella persona del presidente Palmiri, e oggi custodito presso il Cedac di Verona.

Embrasse moi, mon fils. Poco prima di entrare in scena, nel Teatro della Fiera, per quella che sarebbe stata la sua ultima esibizione in pubblico, l’8 marzo scorso Grock mi salutò con quelle parole. Era una frase, per lui, non abituale: al contrario di molta altra gente del circo, facile al saluto patetico e all’abbraccio, Grock conservava, della sua origine borghese e svizzera, una spontanea ritrosia, un ritegno nelle espressioni affettuose che lo faceva apparire talvolta altero e scontroso. Ma il suo ultimo viaggio a Milano, sei mesi fa, per il breve ritorno televisivo, gli aveva dato, forse per la prima volta, la sensazione di non essere più l’uomo capace di dominare il proprio organismo, costringendolo, a 79 anni suonati, alle acrobazie, i salti e le smorfie.
Nel giro di poche ore, quel giorno, Grock aveva subito, sia pure in forma lieve, tre attacchi di cuore: la moglie, i nipoti presso i quali egli alloggiava venendo a Milano, gli amici, avevano trascorso momenti di angoscia, respirando infine liberamente quando, dopo i pochi minuti di trasmissione (aveva, caso unico per lui, sbagliato la famosa jonglerie con l’archetto di violino) Grock, disfatto, ma indenne, era rientrato fra le quinte. Il pubblico si era chiesto perché il vecchio clown avesse voluto affrontare una prova tanto penosa: non certo per il denaro (era ricco) né per la sete di applausi, la cui eco non era spenta ancora attorno al suo nome. Forse solo per dimostrare, a sé e agli altri, che Grock esisteva sempre, e per riconfermare una delle massime attribuite al suo “grande amico”, Paolo Fratellini: “Il clown ha tutti i diritti, meno quello di ammalarsi”.
E’ stato, nemmeno i suoi critici più severi glielo contestano, il più grande clown di tutti i tempi. La sua biografia, pur deformata talvolta dal desiderio di spiegare il suo “numero” come concepito da un orologiaio, è fra le più note degli attori del nostro secolo (egli stesso ha scritto tre volte le sue memorie). La terza versione fu tradotta in più lingue, gli inglesi intitolarono la loro edizione Re dei Clowns.

Attrezzi da lavoro. La valigia di Grock (foto archivio Cedac)
Non apparteneva a una famiglia del viaggio (si chiamava Carlo Adriano Wettach, Adrian per la moglie e per gli amici).
Suo padre Jean Adolph, operaio nelle fabbriche di orologi attorno alla nativa Bienne, era ben felice, quando l’occasione glielo consentiva, di abbandonare ingranaggi e bilancieri per gestire delle piccole birrerie, dove invogliava la clientela a fermarsi e a “consumare” chiedendo alla moglie e ai figli di esibirsi, con lui, in spettacoli di varietà, molto alla buona, improvvisati sulla piattaforma su cui era collegato il pianoforte. Fu nelle osterie “di famiglia” che Adrian trovò la sua strada: fors eda quel recitare sul piccolo palcoscenico gli venne la predilezione conservata per decenni, per il music-hall anziché per il circo. Se, infatti, una data fondamentale per lui resta la sera quando papà Wettach lo porta per la prima volta al circo (un piccolo “ombrello” capace di poche centinaia di posti, il Wetzel Circus) Adrian ha la sua rivelazione qualche mese dopo, entrando, chissà come, in possesso del catalogo della Casa Effner, “strumenti per artisti”. Sono “accessori” di costo elevato: la famiglia vive alla meglio ma si trovano i franchi necessari perché Adrian abbia quanto gli serve per cominciare il “lavoro”: uno xilofono, una serie di campanacci musicali e dei guanti col fischio.
All’apogeo della sua fama, Grock sarà padrone, dal violino-pochette, dai maestri di ballo del settecento alle valigie-fisarmonica, di trenta strumenti.
Grock a Tolone nel 1954
Quando Adrian conta soltanto diciassette anni, i guai, in famiglia, sono tanti da obbligare i Wettach a separarsi. Le ragazze e la madre se ne vanno con dei parenti, lui ottiene un posto di maestro di francese, in Ungheria, presso il Conte Betlen Sandor. Resta due anni con la nobile famiglia, impara equitazione, acrobazia e scherma. Poi entra in una specie di girotondo di mestieri e di trasferimenti in cui è quasi impossibile orientarsi con esattezza (le tre versioni delle memorie sono talvolta in contrasto tra loro). E’, di volta in volta, liutaio, accordatore di pianoforti, imbianchino, xilofonista; uomo serpente, eccentrico musicale, cassiere, clown in un circo grande che dà quattordici spettacoli al giorno. Spesso è in difficoltà, soffre la fame, dorme nel ripostiglio degli attrezzi, impara, con tenacia, quanto può servirgli.
Ufficialmente Wettach si trasforma in Grock nel1903.
Si tratta di rimpiazzare, nel duo comico Brick e Brock, il secondo eccentrico che se ne è andato: accanto a Brick ossia a un certo Marius Gallante, Adrian si sceglie un nome simile a quello dell’altro, già con la pregiudiziale di cambiarlo con ogni probabilità a duo scisso.
L’incontro con Antonet, tre anni dopo, trasforma invece l’embrione di personaggio che ha nome Grock in una maschera destinata a rimanere per sempre nella storia dello spettacolo. Da quando Foottit e Chocolat ne avevano creato il prototipo celebre, circa mezzo secolo prima, l’entrata comica dei clowns si basava su due personaggi: il clown bianco, elegantissimo nell’abito di raso ricamato a lustrini, il viso candido di gesso, il cappelluccio a cono, e accanto a lui, l’Augusto, e cioè il Toni infagottato negli abiti troppo larghi, il trucco esagerato, le parrucche gialle e rosse.
Umberto Guillaume, detto Antonet, il maggiore clown bianco della sua epoca, comprese che il giovane Wettach poteva essere un ottimo Augusto, e lo scelse quale compagno. Il 1 ottobre 1906 Antonet e Grock debuttarono al circo Alegria di Barcellona.
Grock col suo inseparabile clarinetto
Fu un’alleanza proficua per entrambi: durò sei anni, consentendo a Grock, attraverso la realizzazione di oltre 50 entrate comiche, di gettare le basi del suo “numero” famoso. Quando l’intesa ebbe termine (di vecchia famiglia del circo, Antonet preferiva “lavorare” in pista, Grock sul palcoscenico) Wettach era in possesso di quanto gli occorreva per realizzare il suo capolavoro, il “numero” di 40 minuti intitolato ormai “Grock and partner” lo stesso che, seppure scisso in tronconi di circa 8 minuti ciascuno, e rallentato dalla età dell’attore, abbiamo visto qualche anno addietro sui teleschermi.
E’ nel periodo fra le due guerre che Grock conosce la sua fortuna maggiore: non solo ha contatti eccellenti (quasi trecento sterline la settimana, per un impegno di sei mesi al Colosseo di Londra), ed è l’idolo del pubblico inglese e centro-europeo, ma entra a far parte di quel piccolo gruppo di personalità della scena e dello schermo che il bel mondo accoglie volentieri;
Villa Bianca
diviene così “grande amico” (è la sua fase prediletta) non solo di Chevalier, Josephine Baker, Mistinguette, ma anche di Churchill, Stresmann, l’Agha Khan. Chaplin, altro grande amico, Grock lo vede da un punto di vista del tutto singolare: “Un bravo ragazzo – ripeteva anni addietro – era nella troupe di Fred Karno nel 1908. Un buon clown. Poi si è messo a fare del cinema”.
Negli anni del successo, nasce la casa di Oneglia, la singolarissima Villa Bianca che appare, con le bizzarrie architettoniche, la realizzazione del sogno di fasto e di opulenza di tutti i clowns.
La bara con le spoglie di Grock esce dalla Villa di Imperia (foto archivio Cedac)
Costruita fra il 1929 e il 1932, Villa Bianca accolse Grock e sua moglie, prima dei brevi soggiorni, poi allo scoppio della guerra per un lungo periodo. Nella biografia di Grock c’è un “segreto”: il primo matrimonio con una signora francese, molto bella, di modi squisiti, ricca, morta di cancro nel 1917. Nel 1919, Adriano, vedovo, sposò a Londra Ines Ospiri, già attrice di canto. Fu un matrimonio felice, basato sulla più grande comprensione sia sul piano artistico che su quello umano. Ogni sera, fra le quinte, dietro la “barriera” del circo, la signora Ines assisteva al numero del marito, ed era lei a cucire i notissimi abiti di scena di Grock: i calzoni enormi, la giacca sbrindellata, i gilè troppo abbondanti. Benché avesse detto addio alle scne nel 1939, Grock non rimase a lungo in ozio. Nel 1950 divenne impresario ed ebbe un suo circo, con lo ghapiteau bianco e azzurro, col quale continuò le tournées estive fino al 1954. Il 31 ottobre di quell’anno, ad Amburgo, dopo una recita trionfale, consegnò la chiave simbolica del circo al suo ex direttore, e rientrò a Oneglia. Vi è rimasto, occupandosi di giardinaggio e di piccoli lavori nella sua officina, sino a ieri: uniche evasioni, le poche recite alla TV, e qualche viaggio a Parigi o in Svizzera.
Come tutti gli attori, i ballerini e, soprattutto i clowns, egli non può lasciare una documentazione esatta di ciò che è stato il suo “numero” in cui acrobazia, agilità, variazioni musicali, si univano a un umorismo leggero, ingenuo, fatto di annotazioni appena accennate più che di “battute” o di parodie.
Grock nella bara (foto archivio Cedac)
Di sé ha lasciato scritto: “Sono il risultato di mezzo secolo di osservazione e di ostinazione, il desiderio di perfezionare quello che già era perfetto. Credo di esserci riuscito”.
Ora, mentre Grock lascia per sempre le maschere, le statue, i diplomi d’onore, le medaglie, i ritratti che lo ricordano in ogni sala di Villa Bianca, questa sua affermazione appare, ai milioni di spettatori che lo hanno applaudito, solo nella sua luce patetica.
Massimo Alberini
Corriere della Sera, 15 luglio 1959