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Il carnevale di Arlecchino
“Noi catalani riteniamo che sia necessario tenere i piedi ben piantati a terra se si vuole compiere un salto. Il fatto di potermi posare a terra di tanto in tanto mi consente di saltare più in alto.” La terra bruna di Catalogna e il salto verso l’inafferrabile soffio vitale della pittura, la terra battuta dell’arena e l’impalpabile pulviscolo che si eleva sempre più in alto, sempre di più …
Joan Mirò ed il circo, un rapporto nato lontano, fra il rosso ed il mattone delle rocce frastagliate di Montroig, e accresciuto dai fiumi di spirito e colore di Parigi. Una vita vissuta continuamente in viaggio, dentro di sé, nell’arte, dalla Spagna natia, che con spire indissolubili lo riporta alle radici (la famiglia, le tradizioni, la patria …), alla capitale francese che si insinua nella sua vita nel 1921, portandolo a tornarvici infinite volte. Da qui se ne riparte carico di colori e forme, negativi impressi a fuoco nella mente e nello sguardo, di emozioni e stimoli scaturiti da incontri ed amicizie (Picasso nel 1921, Klee nel ‘25, Calder nel ‘28), suggestioni entrate sotto pelle e destinate a rimanervi per sempre.
Il circo nasce strutturalmente e figurativamente nel 1924-25 con Il carnevale d’Arlecchino, un’opera all’interno della quale la straordinaria capacità di invenzione dell’autore viene esaltata dalla ricchezza formale unita magistralmente all’attenzione per il dettaglio, un orientamento che trova corrispondenza nella nuova avanguardia surrealista. Il dipinto rivela uno straordinario schema compositivo dove ogni particolare ha un suo ritmo e allo stesso tempo è legato a quello degli elementi circostanti, la figura di Arlecchino non domina la scena, ma è perfettamente inserita all’interno di una composizione più ampia dalla quale però non viene fagocitato, riuscendo così a mantenere l’equilibrio totale senza dominarlo. Il quadro che si presenta in apparenza come un sogno divertente e bizzarro, nato quasi per gioco, insieme ad altre opere nel medesimo stile, valse a Mirò la fama di pittore infantile (J.J.Sweeney, 1941), la cui opera era caratterizzata da un’allegria ed una frivolezza senza pari. In realtà quello che ad un primo sguardo appare come una danza confusa e senza senso, è frutto, come lo stesso autore ebbe modo di dichiarare, di allucinazioni serali provocate dalla fame di intere giornate a digiuno, a cui in un secondo momento si univa la sperimentazione di dimensione, forma, colore e movimento.
La casa del circo
Da queste premesse si sviluppa e cresce la passione per il circo, infiammatasi nei periodi parigini, costantemente alimentata dalla visione di spettacoli e dalla frequenza di artisti dentro e fuori chapiteaux e teatri, e condivisa dagli amici più intimi, primo fra tutti Sandy Calder, del cui circo Mirò era il primo assoluto ammiratore e presenza fissa ad ogni rappresentazione. La produzione dedicata al mondo circense inizia negli anni 1925-27, periodo a cui si data una serie di dipinti (almeno una dozzina) tutti intitolati Il cavallo da circo: all’interno di questi non è possibile ricreare un ordine cronologico preciso, e, seppure altamente stilizzati, in tutti è possibile individuare una forma che ricrei le fattezze di un cavallo. Dipinto in uno stile piuttosto elementare il corpo dell’animale possiede tuttavia numerosi dettagli caratterizzanti: la testa rivolta solitamente a destra, occhi rossi, ed una criniera che dal lungo collo si sfìlaccia verso l’esterno.
Agli stessi anni appartiene anche un’altra opera stilisticamente e tematicamente collegata alla serie dei cavalli: La casa del circo. In entrambi i casi si tratta di sfondi monocromi all’interno dei quali prendono vita forme che, alternativamente, ricoprono il ruolo di protagonista, ambientazione e pura decorazione. La casa del circo è data dall’unione di due linee bianche, congiunte a formare una “V” rovesciata, richiamo alla copertura di un tendone, alla sinistra di questo una figura che per grandezza e presenza scenica ruba l’attenzione dell’osservatore: si tratta di una grossa otaria, poggiata sullo sgabello di scena (anch’esso rovesciato), che sul naso regge un minuscolo pallone nero. In apparenza si elevano i comprimari dello spettacolo rendendoli protagonisti assoluti, in realtà, analizzando la poetica artistica del pittore, Mirò li riporta sulla scena utilizzandoli come forme isolate, assoggettate ad uno studio compositivo essenziale e perfetto allo stesso tempo.
Circo
Nel 1934 dopo aver rappresentato gli animali e la sua casa, il pittore omaggia direttamente il circo: un dipinto dall’omonimo titolo, riproduce uno spettacolo con diversi personaggi, impiegati contemporaneamente in una serie di numeri. Al centro campeggia su di uno strano velocipede un bizzarro equilibrista tutto volto, con il capo piegato verso il basso e l’occhio rosso-nero a scrutare quello che accade al di sopra. Nell’aria, appeso ad un gancio che s’intravede appena, una sorta di trapezista, intento ad eseguire il proprio numero e ad osservare ciò che accade sulla scala posizionata sulla sinistra del dipinto. L’elemento, comparso per la prima volta alla fine degli anni ’10, è un simbolo costante ed ossessivo nella pittura di Mirò, un collegamento fra il tangibile e il non tangibile, un mezzo di fuga al quale qui gli acrobati chiedono supporto durante la propria performance, e da cui si elevano verso una realtà sconosciuta e misteriosa. I personaggi sono tutti concentrati sul proprio numero, ed impiegati a fissarsi tra loro, tutti complici e collegati da una serie di sguardi, noncuranti dello spettatore. A questi si rivolge invece la figura all’estrema destra, dal volto coperto di bianco ravvivato da macchie di colore, un clown volto verso gli spettatori, colto nell’osservare chi l’osserva e nel traghettarlo nell’universo della pista.
Il cavallo del circo
Tre anni dopo il linguaggio cambia radicalmente, conseguenza diretta dello scoppio nel 1936 della Guerra Civile spagnola. Le opere di Mirò, ritornato in patria solo nel 1940, ne diventano un riflesso diretto: viene meno lo stile degli anni precedenti, nei quali avevano imperato forme intrecciate su grandi campiture monocrome, e violenti contrasti di brillantezze cromatiche. Le donne, i ritratti e soprattutto la Spagna sono i temi cardini di un periodo caratterizzato da sofferenza e violenza, difficoltà che nel 1937 intervengono anche sul circo trasformandolo. In Il circo il cellotex (ed in altri casi la masonite) sostituiscono la tela ed il rame, con un risultato meno visivo e più tattile; la cromia diventa meno definita, più effimera quasi onirica; la visione lascia spazio all’introspezione. L’unico elemento che rimanda al circo è l’otaria, che noncurante della trasformazione in atto attorno a sé, persevera nel proprio numero, reggendo il grosso pallone rosso sul naso.
Il circo viene lentamente abbandonato, gli artisti e gli animali che l’avevano popolato lasciano il posto ad altre stelle, le sue luci anticipano le costellazioni, tema al quale Mirò si dedicherà, isolato, per dimenticare la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Composizioni dettagliate, microcosmi di movimenti, ricordo del circo, di “sagome ed arabeschi proiettati nell’aria (…) che sarebbero saliti in alto e avrebbero accarezzato le stelle”.
Emanuela Morganti