“Ho sempre amato il circo… Così decisi di creare un circo, solo per divertirmi”. Il Cirque Calder è un signore di 86 anni che con maestria e semplicità incanta chi vi entra in punta di … mani.
E’ figlio di una passione scoperta dal suo autore quando ancora non era troppo tardi per buttarvisi a capofitto, senza nulla lasciare alla superficie del banale e del reale.
Alexander Calder nasce nel 1898 in Philadelphia, ultimo di una dinastia di artisti famosi ed apprezzati, purtroppo decisamente accademici per trasmettere diretta passione all’ultimo venuto, che decide di dedicarsi agli studi in ingegneria meccanica (brillante intuizione questa, che per tutto il resto della vita lo aiuterà a trasformare in realtà i suoi sogni di immaginazione) e che solo nel 1923 decide che diventerà pittore. Ma da dove iniziare? Dall’illustrazione, ovviamente, occupazione sottopagata e veicolo viaggiante del talento e del suo stesso autore. Così nel 1925 la National Police Gazette, per la quale lavora freelance, invia il giovane Calder al Ringling Brothers and Barnum&Bailey. “Vi trascorsi due settimane, giorno e notte. Capivo già dalla musica quale numero stava per cominciare e mi spostavo per cercare un punto d’osservazione strategico. Alcuni numeri si vedevano meglio dall’alto, altri dal basso. (…) Ho sempre amato il circo … Così decisi di creare un circo, solo per divertirmi”.
Nasce così un’idea che si potrà considerare conclusa solo quattro anni dopo, quando pazientemente tutti i personaggi avranno trovato il proprio posto sulla scena, e grazie alla quale Calder svilupperà i tratti caratteristici della sua arte: movimento ed ironia.
Il Circus Calder è la meravigliosa ricostruzione di uno chapiteau, un circo dinamico ma non meccanico, mosso dalla sola perizia manuale, all’interno del quale si esibiscono artisti ed animali costruiti con materiali di scarto. Legno, stoffa, filo di ferro, carta, gomma, sughero, bottoni, tappi di bottiglia, trovano una nuova e fino ad allora sconosciuta dignità, grazie ad una abilità che Sandy aveva iniziato a praticare quando da piccola costruiva bambole per la sorella. La pista ed il tendone furono i primi ad esser creati, i personaggi videro la luce uno dopo l’altro in una stanza parigina del 1926.
“Il mio primo acrobata fu un saltatore, che aveva le gambe di filo d’acciaio, mani di piombo, corpo vestito di velour giallo, e una testa fatta di un pezzo di turacciolo, coi capelli dipinti a guazzo.” Dopo di lui verranno la cavallerizza e l’ammaestratrice, l’elefante ed il leone marino, il clown, l’uomo più forte del mondo, il paziente leone accudito in gabbia dal proprio addestratore, la danzatrice del ventre, il lanciatore di coltelli, il mangiatore di spade, trapezisti, giocolieri e perfino un cowboy ed il suo toro usciti dal Wild West Show di Buffalo Bill, tutti introdotti dalla presentazione di un elegante direttore munito di megafono. La maestria con cui Calder azionava i singoli artisti era condita da una mimica facciale invidiabile, e dalla colonna sonora, fra cui la canzone Ramona, riprodotta dal fonografo azionato dalla moglie Louise. Calder dirigeva e muoveva il proprio circo, interpretando di volta in volta le voci degli artisti, scandendo con un fischietto il susseguirsi dei numeri, dilagando in un’ironia sconfinata, quella dei numeri non perfettamente riusciti, come accade all’assistente del lanciatore di coltelli, trafitta ed accompagnata fuori scena da due solerti barellieri.
Nella Parigi degli anni Trenta il circo di Calder divenne un’attrazione da non perdere, uno di quegli eventi che ogni artista o presunto tale doveva aver visto almeno una volta, meglio se nell’intimità di uno studio. I compagni del gruppo Abstration-Création, Hans Arp, Robert Delaunay, Naum Gabo, Piet Mondrian e gli altri erano entusiasti di questo spettacolo in miniatura e anche il maestro Mirò non riuscì a sottrarsi al fascino di quella performance, rapito da quei pezzetti di carta bianchi, legati ad un filo sottile, uccellini volteggianti che si posavano sulle spalle di una deliziosa addestratrice. Ma il successo si estendeva anche all’interno dello stesso mondo circense: Paul Fratellini si innamorò del cagnolino in caucciù, dispettoso e ballerino, e ne chiese una riproduzione più grande da portare con sé nei propri spettacoli.
Al suo rientro in America il Circus Calder continuò la propria attività, prima all’interno di gallerie e poi privatamente per gli amici più intimi. Nel 1982 il Whitney Museum of American Art di New York indisse una raccolta pubblica di fondi per il suo acquisto. Metà dei fondi furono versati dalla Robert Wood Johnson Jr Charitable Trust, altri da illustri donatori (fra cui i coniugi Rockefeller), altri ancora da più di 500 privati provenienti da 26 paesi. Il circo di Sandy aveva incantato così tante persone che in molti sentirono di dover fare qualcosa affinché non venisse smembrato e disperso, ma potesse continuare a meravigliare con la propria complessa semplicità. Nonostante ciò con la scomparsa del suo autore e data la fragilità dei materiali non è stato più possibile assistere ad una nuova piece sotto lo chapiteau. Rimangono tuttavia la splendida descrizione fattane dallo scrittore Thomas Wolfe in un episodio del libro Non puoi tornare a casa, e le meravigliose immagini del documentario girato da Carlos Vilardebo nel 1961 nello studio parigino. Diciannove minuti durante i qual Alexander Calder con grazia e leggerezza dona al pubblico allegria pura, lo stesso che all’inizio della sua avventura l’aveva mosso a creare il Circus Calder. Solo per divertirsi.
Emanuela Morganti