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Il circo immaginario di Paolo Ventura

Abbiamo già parlato di lui e delle sue “opere fotografate”, in mostra attualmente sia alla Biennale di Venezia edizione 2011 che alla galleria Photografica FineArt di Lugano.
Le sue miniature sono assemblate ex novo in un set disegnato prima e costruito poi. Questa atmosfera irreale viene immortalata in un solo istante, l’istante dello scatto fotografico, unico e reale. Alcune delle fotografie sono ambientate nel mondo del circo o ritraggono icone del circo.
Paolo Ventura, artista milanese, ha vissuto a New York e ha esposto un po’ in tutto il mondo. Ci sono voluti un po’ di giorni per raggiungerci, ma è con infinita disponibilità che mi risponde e accetta di essere intervistato, quasi fosse il vicino di casa e non l’artista pluriaffermato e riconosciuto a livello mondiale, quale è. Dalle colline toscane, dove vive ora con la famiglia, mi racconta della visione “circense” della sua arte.

Una delle opere di Paolo Ventura nella sezione dedicata alla fotografia del padiglione Italia alla Biennale Arte di Venezia

Last show. Questa è la prima foto (tratta dalla raccolta “Racconti d’inverno”, Winter stories) che ho visto alla Biennale e che mi ha colpito. Un clown sopra uno sgabello fuori da un tendone di circo. Ma da dove viene la sua ispirazione circense?
Il circo è un non luogo, senza tempo, che di fatto nelle sue essenzialità non è cambiato nei secoli. Essendo un mondo a parte, diverso dalla realtà, è un mondo che ha conservato delle tradizioni che la società normale ha perso completamente. Volendo io fare un lavoro dove non ci fosse né tempo e né luogo, dove ci fosse un luogo indefinito più vicino al sogno che alla realtà, il circo si prestava in maniera perfetta per le sue caratteristiche di spettacolo da sogno. Poi ho fatto delle piccole incursioni nella realtà con il riferimento agli anni Quaranta e all’ambientazione di quell’epoca.
Quindi del mondo del circo le interessa di più l’atmosfera delle icone che lo rappresentano?
Innanzitutto l’estetica del circo: il trucco dei clown e dei personaggi che lo caratterizzano. Non sono un esperto di circhi, per me è un luogo magico anche se non ci vado da tanti anni. Io non sono interessato allo spettacolo per la mia ispirazione artistica, sono più affascinato dal contorno, da quello che c’è dietro lo spettacolo e che contribuisce a costruirlo.

Paolo Ventura

Che rapporto ha con il circo inteso quindi non come arte performativa e non solo come fonte di ispirazione artistica, ma coma porta di ingresso ai suoi ricordi d’infanzia, ci andava da bambino? E cosa ne pensa?
Certo, tutto il mio lavoro è basato sulle memorie d’infanzia e sui ricordi, quindi io mi ispiro al mio circo immaginario. A Milano c’erano dei piccoli circhi che si posizionavano appena fuori la città, soprattutto verso Natale, quindi d’inverno. Io li ho idealizzati e reinventati, però mi baso sull’elaborazione dei miei ricordi, rispetto a quello che ho visto quando ero bambino, e ora ci porto mio figlio. Quelli che vedevo io erano dei circhi poveri, probabilmente erano quelli vicino a casa, dove mi portava mia nonna. La cosa che mi piaceva era proprio l’apporto di fantasia di cui c’era bisogno per vedere uno spettacolo fatto di pochi mezzi: la partecipazione del pubblico era un aspetto fondamentale ed è ciò che tuttora mi affascina.
Questo aspetto di “pubblico attivo” è molto interessante, soprattutto in un’epoca nella quale la maggior parte delle persone si informa e si diverte con la televisione, medium che le rende “passive” nei confronti del messaggio comunicato. Ci spiega meglio?
Il circo mantiene l’essenza di uno spettacolo che ha bisogno della partecipazione intellettiva del suo pubblico, cosa che spesso non ha la televisione, non ha il teatro, non ha il cinema, proprio perché forniscono spettacoli già confezionati in ogni minimo dettaglio e riducono al minimo la facoltà di immaginare. Il fatto che al circo si possa ancora sognare usando la fantasia per ricostruire una storia, un’ambientazione, è molto importante, ed è talmente educativo che obbligherei le scuole a portarci i bambini una volta l’anno, perché è difficile oggi trovare uno spettacolo che stimoli la fantasia e implichi uno sforzo di immaginazione, e questo il circo ce l’ha.
Quale strada dovrebbe percorrere il circo tradizionale per innovarsi, senza snaturare la sua forte peculiarità, che è proprio quella di non essere come quello contemporaneo?
Il circo vive in un ambiente anacronistico, o si adatta alla televisione e a quel linguaggio, oppure soccombe. Adattarsi è un suicidio secondo me, perché il circo deve difendere le proprie peculiarità, le proprie essenze, addirittura tornando al passato, non “scimmiottando” la televisione, per quanto riguarda le scenografie o gli stacchetti musicali moderni. Se un piccolo circo italiano avesse il coraggio di tirar fuori un circo classico degli anni Venti, con quell’estetica e quel linguaggio, forse avrebbe molto più successo. Il segreto è nel passato, spesso bisogna guardare indietro, non avanti perché l’essenza delle persone non cambia, la gente vuole distrarsi, vuole sognare, vuole credere che esistano cose migliori, vuole le stesse cose dal circo, dallo spettacolo, dall’arte.
Su youtube c’è un video in cui lei mostra il suo studio e racconta il suo modo di lavorare. La sua tecnica mi ricorda la preparazione scenografica di un set, teatrale o di uno shooting di moda, e lei è stato anche fotografo di moda.
Anche la moda inscena qualcosa, anche se non penso la mia tecnica derivi dal mio passato di fotografo di moda. A volte è difficile capire da dove vengono le cose e il perché. Ho iniziato nel 2006 con Souvenir di guerra, era una necessità che avevo di fare delle cose per me stesso, non ero soddisfatto. Io volevo fare delle fotografie, non dei quadri o dei disegni; volevo fotografare quello che avevo in mente e che sapevo esattamente come avrebbe dovuto essere, ma non esisteva nella realtà. Quindi l’unico modo per farlo era costruirlo io ex novo.
A proposito di War Souvenir, come è cominciata? In un giorno di pioggia, a Manhattan, con i suoi lavori sotto mano mentre lei si dirigeva in una galleria di Chelsea, vero?
Ma dove l’hai trovata questa cosa? Non pensavo si sapesse (ride, ndr). Sono entrato in questa galleria (Hasted Kraeutler a New York, ndr), per fortuna non sapevo fosse così importante, avevo uno spirito ingenuo. La proprietaria era lì presente per caso e, me l’ha confessato dopo, ha dato un’occhiata alla busta più per compassione per quest’uomo zuppo e fradicio che per reale interesse. Mi ha preso subito a lavorare per loro. Chiaramente è stato importante avere fin dall’inizio un riscontro positivo.
Lei si serve di un mezzo utilizzato di per sé per riprodurre la realtà per immortalare qualcosa che non esiste, che è quello che lei fotografa. Questo aspetto artigianale del suo lavoro è davvero peculiare, che rapporto ha con la fotografia e con la sua incursione nell’arte contemporanea?
L’avvento del digitale ha cambiato i termini della fotografia, che prima aveva un dovere sociale di rappresentare la realtà. Di fatto la fotografia era per l’immaginario comune quello strumento che registrava la realtà, e ha raccontato la nostra vita per quasi un secolo e mezzo. Il digitale ha scardinato questo dovere civile e ha cambiato le carte in tavola, aprendo la strada ad un uso della fotografia più ampio, come mezzo espressivo non legato alla realtà. Oggi ci sono numerosi artisti che non si possono definire fotografi e questa è una rivoluzione. Poi, certo, qualcuno magari confonde il tramonto con l’alba. Per me è un’alba, non un tramonto: muore un certo tipo di fotografia ma ne nasce una più libera. In fondo io uso quell’inganno, creo un mondo che non esiste ma che diventa reale nel momento in cui lo fotografo e chi lo guarda crede a quello che vede. La fotografia è entrata nell’arte ma negli anni il mercato si è assestato e ha eliminato ciò che si era introdotto abusivamente, le cose sono cambiate velocemente, oggi rimane per lo più la qualità. Se un collezionista deve scegliere tra una seggiola spaccata e una fotografia è chiaro che sceglie la fotografia perché la capisce, l’arte contemporanea spesso no. Poi la compra lo stesso perché deve comprarla (sorride, ndr).
Lei ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera. Quali sono i suoi riferimenti artistici e fotografici? Io nelle sue opere vedo, ma forse lo vedo solo io, gli sfondi rarefatti di Turner e il surrealismo di Magritte, lei invece ha parlato del realismo magico di Donghi.
Beh sì, a Turner non avevo pensato ma è un pittore che mi piace molto. Donghi naturalmente come riferimento c’è, io metterei Sironi e Balthus, metterei anche la letteratura: Calvino, Bassani, Parise, Pavese, per la descrizione dei luoghi. La fotografia, che è un’immagine chiusa che mi dice già tutto e non mi emoziona, non mi può ispirare: è troppo reale e definitiva, potrei solo copiarla. Non è un giudizio di valore naturalmente, ma un puro giudizio di ispirazione personale. Penso più a pittura e letteratura.
Ci sono state molte polemiche sul padiglione Italia, in particolare, critiche sulla scelta di inserire le segnalazioni artistiche di alcuni personaggi della cultura. Il curatore Vittorio Sgarbi ha dichiarato: “Questo mio modo di scegliere non ha assecondato i mercanti dell’arte” e ancora “fanno polemica, ma non si accorgono che è esposto un Piero della Francesca”. Cosa ne pensa?
Non vorrei essere diplomatico, ma secondo me questo vale per tutto tranne che per la stanza dedicata alla fotografia, che lui ha affidato a Italo Zannier, che è un punto di riferimento per la fotografia italiana. E Sgarbi è stato anche suo allievo. Zannier mi ha telefonato personalmente, io non lo conoscevo, per comunicarmi che voleva includermi nella selezione. E, anche escludendo me stesso, per carità, bisogna riconoscere la grande qualità di quella stanza.
Se il padiglione Italia deve essere lo specchio del Paese lo approvo, ha quel profumo di minestrone che si sente negli androni dei palazzi italiani, rappresenta l’Italia di questo momento, nell’insieme, nel bene e nel male, non lo giudicherei per singola opera/nomina. E se ha successo perché viene compreso dalle persone, ben venga. L’arte contemporanea si è chiusa in se stessa e parla un linguaggio per pochi, e secondo me l’arte non può essere fine a se stessa.
Lei ha esposto in tutto il mondo, e poi c’è una pubblicazione con Contrasto, un documentario della BBC che parla di lei (Genius of photography) e che la inserisce nella storia della fotografia dal 1839 ad oggi. Insomma, sembra realizzato professionalmente. Sogno nel cassetto?
Uno l’ho già realizzato, una mostra al museo Fortuni di Venezia, che mi piace molto. E poi, beh naturalmente ci sono due musei dove mi piacerebbe entrare, entrambi a New York: il Metropolitan e Moma.
Beh, sono in effetti tra i più grandi e importanti musei del mondo. Chissà Ventura non riesca a proseguire la sua straordinaria, è proprio il caso di dirlo, “avventura” professionale con l’ingresso nel gotha museale contemporaneo, per stare appeso alle pareti naturalmente! Noi tifiamo per lui.
Alessandra Borella

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