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“Il circo è scuola di bellezza e gioia”


Le parole pronunciate dal card. Gianfranco Ravasi (di cui ieri abbiamo pubblicato una sintesi) nella giornata inaugurale dell’ottavo congresso internazionale promosso dal Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, in corso di svolgimento a Roma, hanno una importanza eccezionale sia per i contenuti affrontati e sia per la caratura del personaggio. Il card. Ravasi è presidente del Pontificio consiglio per la Cultura, nominato nel collegio cardinalizio da Benedetto XVI lo scorso 20 novembre. Si fa il suo nome anche per la successione del card. Tettamanzi a capo della diocesi ambrosiana. E’ uomo di chiesa e di cultura autorevolissimo, unanimemente stimato e apprezzato per la sua preparazione in particolare come biblista, teologo, ebraista. Prima di approdare in Vaticano è stato prefetto della Biblioteca Ambrosiana ed ha lavorato a fianco dell’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Collabora con diversi quotidiani: dall’Osservatore Romano al Sole 24 Ore da Avvenire a Famiglia Cristiana. Di seguito pubblichiamo una versione quasi integrale dell’intervento del prelato, che mantiene la forma orale della comunicazione e che non è stata rivista dal card. Ravasi.

“Vorrei fare una premessa. Noi sappiamo che l’orizzonte circense in tutte le sue forme ha sempre suscitato notevole fascino nel mondo del cinema. In maniera particolare ricorderò alcuni titoli emblematici, ai quali accenno anche perché ci permettono di entrare nel discorso successivo. Naturalmente ci sono decine e decine di film che hanno per titolo o circo o trapezio oppure espressioni simboliche riguardanti questa particolare forma d’arte. Pensiamo solo ad una pellicola del 1956, Trapezio, con la presenza di un’attrice italiana molto famosa, Gina Lollobrigida. Quel film era la rappresentazione del melodramma, l’aspetto umano e sentimentale che si sviluppa all’interno del circo.
Ma i due film che vorrei proporvi sono due classici. Il primo è del 1928 ed è Il circo di Charlie Chaplin, tutto segnato da una tonalità che è diventata un luogo comune quando si parla del circo, e che voi potrete però smentire, cioè il circo come sede di drammi, di sofferenze nascoste sotto il sorriso. E’ la storia di una persona che giunge senza aver calcolato questa scelta, all’interno di un circo, portando su di sé l’accusa falsa di un delitto che gli è stata rivolta. Quest’uomo entra nella vita comunitaria di un circo e si innamora dell’acrobata cavallerizza. Vive una esperienza sentimentale che è tutta fatta di gesti delicati e Chaplin rappresenta come lui sa fare, questa sensibilità delicata, timida. Ma alla fine il suo amore sarà impossibile perché la cavallerizza sceglierà un altro, uno spasimante molto più espansivo ed esteriore di Chaplin. Il tema è quello della tristezza, dell’amarezza, al di sotto di un orizzonte apparentemente festoso.
Il secondo film cui faccio riferimento è molto più vicino a noi, è del 1970: I clowns di Federico Fellini. Qui c’è un’altra rappresentazione dell’esperienza circense: in un paese di provincia approda un circo che genera subito curiosità e allegria tali che mobilita le famiglie, e i bambini in particolare. Alla fine, però, diventa come l’incanto di un mondo che la società contemporanea considera come qualcosa del passato. C’è un velo di nostalgia. Fellini ricorda il suo amore per il circo e mette in scena una serie di interviste per mostrare che alla fine è un mondo che sta morendo, che non ha più la capacità di realizzarsi in una società che è di tutt’altro genere e che ha tutt’altra tonalità.
Ho voluto fare questi riferimenti attraverso la settima arte, che è la più vicina a noi, per dire che ogni riflessione che si fa sul rapporto fra dimensione artistica e circo, coinvolge sensazioni umane molto variegate.
Il mio intervento toccherà due elementi. Il primo è legato al simbolo del gioco: di sua natura il circo, lo spettacolo viaggiante, suppone il divertimento, il gioco, che come ben sappiamo è una delle componenti fondamentali della esperienza umana. Il gioco è strutturale all’antropologia, tanto è vero che ci sono molti saggi importanti che si intitolano Homo ludens, l’uomo che gioca, che è quasi la definizione stessa dell’uomo.
Prima di sviluppare il simbolo del gioco, vorrei fare riferimento a due passi biblici significativi che rappresentano il rilievo di questa esperienza umana radicale. Il primo è un testo del libro dei Proverbi, capitolo ottavo. E’ di scena la Sapienza divina che è rappresentata come una persona, forse una fanciulla, una giovane donna, una ballerina, se volete anche una acrobata, perché vedremo che la sua è una danza cosmica sfrenata.
“Io ero davanti a Dio come amôn (dirò dopo che cosa può significare questa parola). “Ero la sua delizia ogni giorno, / danzando davanti a Lui in ogni istante, / danzando sulla distesa terrestre, / trovando la mia allegria tra i figli dell’ uomo”. La Sapienza alla fine della creazione si abbandona a una danza, a una specie di ebbrezza festosa espressa con un verbo ebraico che implica delizia, allegria, abbandono gioioso, ballo. La Sapienza è dunque un filo di gioia nel creato.
La parola amôn, in ebraico, ricorre una sola volta, ed è proprio nei Proverbi. Può significare “architetto” o “artefice”, uno che crea un capolavoro, quindi artista, oppure ragazza, fanciulla, danzatrice. Ecco che allora abbiamo rappresentato ciò che si incontra normalmente anche nel circo, ma che viene usato come simbolo di una realtà che è creata da Dio, il gioco. Giocare ha questa dimensione divina e al tempo stesso umana.
Il secondo passo della Bibbia che vorrei ricordare è il capitolo 11 di Matteo. Cristo nella sua predicazione non ha fatto, come invece accade tante volte noi predicatori che parliamo sopra le teste dell’uditorio, astrattamente. Gesù parte sempre dalla concretezza. E’ stato detto da un esegeta che parte dai piedi dei suoi ascoltatori, dai semi, dal terreno, dai pesci…
Le parole di Gesù sembra si riferiscano alla osservazione della piazza di un villaggio della Terra Santa e pare stia guardando gruppi di bambini che giocano. Alcuni di questi bambini imitano le nozze, uno sposalizio, con tutta la festa che questo comporta. Un altro gruppo vuole invece imitare un funerale, evidentemente si tratta di due giochi incompatibili fra loro. Ecco le parole di Gesù. Questi ragazzi dicono: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato (le nozze, ndr), vi abbiamo intonato un lamento (il funerale, ndr) e non avete pianto”. E Cristo porta la sua spiegazione: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”. Si potrebbe dire: è venuto il Battista che aveva una faccia da funerale e non gli avete creduto perché era troppo triste, arrivo io che invece mangio e bevo, vi porto la buona notizia, e voi non mi credete ugualmente.
Questa lezione Gesù la desume da una esperienza umana che è quella del gioco, rappresentata soprattutto dai bambini.
A questo punto vorrei tirare qualche conclusione a proposito di questo primo simbolo che riguarda soprattutto la vita del circense il quale ripropone ad adulti e bambini la realtà umana fondamentale del gioco.
Primo elemento: il gioco per sua natura insegna la gratuità, la libertà. C’è una frase significativa di uno scrittore italiano, Ignazio Silone, nel suo romanzo Fontamara. Uno dei contadini dice: “Se è gratis c’è l’inganno”. Rappresenta un mondo che non crede più al dono, al gratuito, alla festa. La liturgia per sua natura comprende anche questo aspetto spettacolare, rappresentativo, libero, giocoso: è significativo ad esempio che il sacerdote quando celebra la liturgia indossi una veste diversa rispetto alla quotidianità.
Pensiamo anche ad un’altra frase di uno scrittore americano scandaloso, Henry Miller, uno che è stato fieramente anticristiano. Ma ha un pensiero che a mio avviso è illuminante: “L’arte e la religione non servono a nulla tranne che a mostrare il senso della vita”. L’arte, la poesia, la musica, non servono a sfamarci, eppure non si può vivere senza, perché esse danno qualcosa di più profondo e decisivo all’uomo. La società contemporanea ha costruito tutto sul calcolo, sappiamo il prezzo di tutto ma non conosciamo più il valore delle cose.
Il secondo elemento lo esprimo con un termine particolare: stupore, meraviglia. Pensiamo al bambino che ha occhi che scoprono. Per lui anche un oggetto piccolo diventa un microcosmo, suscita meraviglia. Lo scrittore inglese Henry Chettle diceva che l’umanità morirà non per mancanza di meraviglie ma di meraviglia.
La nostra è soprattutto la società della tecnica e non conosce più, ad esempio, la grandezza della poesia.
Nei giorni scorsi ho invitato al Pontificio consiglio per la cultura, uno dei più grandi astrofisici a livello mondiale, John David Barrow, che insegna all’università di Cambridge, ed ha tenuto una lezione sulle origini dell’universo durante la quale ha parlato della teoria del multiverso. Io facevo notare a questo studioso, e lui me lo confermava, che solitamente ci muoviamo nella stessa maniera del filosofo e del poeta: anche quando usiamo categorie scientifiche, sono categorie simboliche. Eintesin per spiegare la teoria della relatività ha dovuto usare non più le categorie scientifiche di spazio e tempo, che etano insufficienti, ma ha optato per categorie filosofiche. L’umanità attraverso il gioco comprende ed esprime anche questa capacità di intuire il mistero dell’essere, la realtà più profonda che va al di là della semplice analisi.
Che cosa ho voluto dire sostanzialmente? Che noi abbiamo bisogno attraverso di voi che non si perda questa realtà del gioco nella sua duplice dimensione di gratuità, di karis, grazia. La grazia è un dono che Dio offre alla sua creatura, e quale parola ha generato la karis? La caritas, l’amore; vedete dunque che il gioco ci ricorda anche l’amore.
Quando noi guardiamo lo spettacolo del circo ammiriamo la meraviglia che davanti ai nostri occhi sta presentandosi, ed è una meraviglia che ha in sé tante spiegazioni sul senso più profondo della realtà.
Uno dei giochi più popolari ai nostri giorni, almeno in Europa, è il calcio: ebbene la società contemporanea ha fatto di tutto per far perdere al calcio la sua dimensione di gioco, ed è diventato ormai un meccanismo perverso economico, sociale, un fenomeno che non contiene più nulla della sua matrice originaria.
Il secondo simbolo di cui vorrei parlarvi è la bellezza come ferita. La bellezza, l’arte, non è soltanto gioco, godimento, contemplazione, è anche ferita.
Utilizzo una frase del cardinale Ratzinger che risale ad un suo scritto del 2002: “La bellezza ferisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo Destino ultimo”. Rimanda ad una realtà più alta, al suo destino. La parola ferita rimanda a feritoia, è una finestra aperta sul mistero, sull’infinito. L’artista è tormentato. Lo diceva moto bene il poeta francese Alfred de Musset: “I più disperati sono i canti più belli | e ne so d’immortali che sono puri singhiozzi”. La poesia nasce dal dolore, non sempre ma spesso. Se non ci fosse il tema del peccato, della colpa, tre quarti della letteratura non esisterebbe, nemmeno la parte più bella della Divina commedia che è l’Inferno.
Arrivato a questo punto vorrei recuperare l’altro aspetto della vita del circo, forse poetico, sentimentale, o forse non esiste, però io credo che ci sia: il clown triste. E’ la rappresentazione di chi fa ridere mentre il suo cuore piange, di un’esistenza che spesso è precaria. Il circense e il fierante sono spesso dei nomadi e il nomade è considerato come un diverso e come tale guardato con sospetto. Ricordo quando ero bambino e arrivava il circo nelle feste patronali, i genitori sempre ci instillavano il sospetto che fossero pericolosi e che in qualche modo creassero turbativa nel tessuto quotidiano della società.
La vita del circense comporta un aspetto di fatica e di sofferenza. Il circo ha il suo vertice nella capacità di creare una bellezza estrema: rappresentare qualcosa che non è comune. Per raggiungere questo occorre una esperienza lunga di fatica. L’ascesi deriva dal greco “askesis”, e il suo primo significato è esercizio, cioè una fatica costante, che ti fa sudare, che ti tormenta la carne, che ti impegna la vita per ore e ore di esercizi, che ti fa sfidare le leggi della natura, ma alla fine ti porta a grandi risultati. La ballerina classica quando è sulle punte fa dei movimenti frenetici, contro le leggi del corpo stesso. Grazie all’ascesi, all’esercizio, si fanno esercizi difficilissimi come fossero un gioco, ma tutto questo nasce dalla fatica. Quel sacrificio che la società odierna non vuole più insegnare, i ragazzi di oggi vogliono avere tutto e subito perché la società ha introdotto ormai questa pretesa di immediatezza e non conosce invece la grandezza dell’ascesi. L’arte, perciò, è frutto della fatica costante che l’uomo del circo mette per poter mostrare la bellezza dei suoi disegni, dei suoi gesti e delle sue forme espressive.
Infine vorrei citare due testi religiosi che riguardano il giocoliere, colui che fa divertire gli altri sulla pubblica piazza. Sono due testi religiosi che usano immagini del circo per parlare dell’escatologia, cioè la meta ultima della storia.
La prima testimonianza proviene dalla tradizione giudaica. Siamo sulla piazza di un villaggio, la gente sta svolgendo i suoi commerci, chiacchiera, quando all’improvviso arrivano due saltimbanchi e si mettono a fare il loro spettacolo. Le persone presenti abbandonano i loro traffici e si fermano a guardare stupiti. Dio dall’alto si affaccia con l’angelo Gabriele ad osservare la scena. E Dio dice all’angelo: ci sono in questa piazza due persone che sono già sante. Sono i due giocolieri perché loro hanno il compito di far sorridere gli altri e il sorriso è la legge del paradiso.
Isaia dice che verrà un giorno in cui Dio passerà a cancellare le lacrime dagli occhi degli uomini, per farli sorridere. E’ questo il grande simbolo che voi testimoniate in un mondo che non sa più sorridere, che è cupo e triste.
La seconda testimonianza è di Lutero che, con tutto il rispetto per questo grande credente, non sembra essere l’immagine della festa. Eppure ha una pagina molto bella in un suo scritto riguardo proprio all’escatologia. Descrive gli ultimi tempi, i momenti perfetti della salvezza, con questa espressione: l’uomo giocherà allora col cielo e con la terra, col sole e con tutte le creature. In quel giorno tutte le creature proveranno un piacere immenso, una gioia poetica e tutte le creature come a uno spettacolo di villaggio rideranno con te o Signore e tu riderai con loro.
Queste due testimonianze, l’ebraica e la protestante, sono in un certo senso una sorta di suggello a questa mia riflessione che ho voluto fare con voi, da ammiratore del circo”.

Terminato l’intervento, il card. Ravasi ha risposto ad una domanda sull’importanza degli animali nel circo. Ed ecco la sue parole:

“E’ una domanda pertinente, anche alla mia sensibilità, e rispondo volentieri. So che c’è oggi una certa tensione, un atteggiamento un po’ ostile nei confronti dell’utilizzo degli animali all’interno dei circhi da parte di certi movimenti.
Io invece ritengo che sia una componente significativa quella degli animali negli spettacoli circensi, anche perché è una presenza secolare.
Una delle caratteristiche dell’animale è l’adattamento all’ambiente. L’animale continuamente si adatta ai mutamenti, tanto è vero che in una stessa specie si verificano cambiamenti in base alle regioni in cui si trova a vivere. L’animale entra anche all’interno della vita delle famiglie e s’adatta ai suoi ritmi. Se non capisce il contesto reagisce, ma ha bisogno di quel contesto nel quale inserirsi. Così nel circo l’animale s’adatta e diventa un altro soggetto di fianco all’uomo, in una perfetta sintonia e armonia. Ci saranno anche delle forme di crudeltà, non si può escludere, ma a me il tema degli animali nel circo fa venire in mente Isaia il quale, per descrivere l’escatologia, rappresenta l’armonia tra gli animali che in natura erano contrari e che poi si abituano a vivere insieme: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; la vacca e l’orsa pascoleranno insieme; il leone si ciberà di paglia, come il bue; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi“. Ecco, il circo rappresenta quasi questa armonia paradisiaca e quanto avviene nel circo non è frutto di imposizione ma di armonia”.

Testo trascritto dalla registrazione e non rivisto dall’autore.
(a cura di Claudio Monti)

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