Nel week end il film Come l’acqua per gli elefanti, nelle sale italiane dal 6 maggio, si è piazzato al terzo posto nella classifica degli incassi. Distribuito da Fox, con Reese Witherspoon e Robert Pattinson, non sta incontrando una critica troppo favorevole, ma al pubblico a quanto pare non dispiace.
Per noi l’ha visto anche Ruggero Leonardi, ed ecco la sua recensione.
L’elefantessa della mia vita io non l’ho incontrata al circo ma in un parco nazionale ugandese negli Anni Settanta. Ero seduto a godermi il sole in un ‘lodge’ nella classica ora dell’aperitivo quando lei arrivò, agitando minacciosa le orecchie e suscitando il panico fra chi occupava i tavoli più vicini . Ma non aveva intenzioni bellicose e faceva soltanto il suo dovere di mamma del cucciolone che aveva accanto. Una donna del lodge che ben conosceva le sue abitudini levò il coperchio da un pozzo entro cui l’elefantessa immerse subito la proboscide, invitando il piccolo a fare altrettanto. Fu una abbeverata lunga e soddisfacente, ma la colazione del mattino era soltanto incominciata. La madre piegò i rami di una delle piante più vicine attingendone golosamente il fogliame e coinvolgendo nella colazione anche il piccolo. Una scenetta familiare, direi, solo interrotta talvolta da qualche lieve agitarsi delle orecchie perché a nessuno dei presenti venisse in mente di prendersi delle libertà. Le agitò, soprattutto, mentre io trattenevo a viva forza il mio fotografo che – pazzo di gioia per l’occasione inattesa – con la “forma mentis” di tutti i fotografi guardava gli elefanti non con gli occhi di un essere umano ma con quelli del suo obiettivo, così rischiando di perdere il senso della distanza.
Avrei rivisto la medesima scenetta familiare tornando in quel medesimo luogo l’anno successivo. L’elefantessa, sia ben chiaro, non era scritturata dall’ente del turismo per fare pubblicità al luogo. Era, il suo, un eccezionale caso di adattamento dell’ambiente umano alle esigenze materne. Certo avrebbe potuto cercare acqua e vegetazione nei liberi spazi della savana ugandese, indimenticabile nella mia memoria perché tanto tanto ricca di verde, ma in quella nicchia trovava di che fare una colazione comoda e pronta in breve spazio. Quanto alla presenza umana, aveva imparato a tenerla a bada con un semplice sventolio di orecchie e di proboscide.
Mi sentirei di parlare per ore dell”universo femminile degli elefanti, che se osservato a dovere val più di qualunque lezione scritta di etologia. E devo aggiungere che sì, pure il circo mi ha dato varie occasioni di approfondimento sul tema, sia in giorni sereni sia in occasioni meno liete. Ricordo l’elefantessa di Vittorio Medini, ma anche le tre simpaticone di Elvio Togni, che pascolavano sui prati verdi della mia Milano allora ospitanti gli chapiteau senza provocare alcun disturbo. Purtroppo, ho avuto anche notizia di alcuni episodi dolorosi dovuti non all’imperizia dei domatori ma all’insipienza di chi li aveva accostati senza le necessarie precauzioni. Pure queste vicende, però, mi hanno fornito materiale per ulteriori riflessioni sulla “filosofia di vita” dei pachidermi.
Non è strano, dunque, che queste e altre immagini si siano impossessate di me come un flash-back della memoria mentre assistevo, al cinema Plinius di Milano, alle scene del film Come l’acqua per gli elefanti che il regista Francis Lawrence ha tratto dal romanzo bestseller di Sara Gruen. Non sono, confesso, un gran frequentatore di cinema: ma che emozione rivedere lì la mia elefantessa preferita mentre agita le grandi orecchie fra le tende di un circo americano. Circo, fra l’altro, la cui ricostruzione almeno a livello ambientale è stata fatta davvero bene. Stiamo parlando di anni ’30, amici miei; anni della Grande Depressione, anni in cui il denaro scarseggia e il proibizionismo ha la pretesa di sottrarre a chi è in conflitto col vivere quotidiano anche la risorsa di un sorso di whisky, se non dell’intera bottiglia. Nel contesto di questo scenario denso di esseri umani e attrezzerie varie si trovano a vivere la loro storia, su un treno che va in cerca di pubblico da un luogo ad un altro, i tre protagonisti: un giovane veterinario finito lì per caso, un direttore di circo che non riesce a essere Ringling ma smania per diventarlo, una bella cavallerizza legata al dispotico proprietario ma inevitabilmente destinata a dirottare verso il nuovo arrivato.
Non vado oltre, per quel che riguarda la trama e gli esiti cinematografici, perché non è questo il mio compito. Voglio però dire che il film, a mio giudizio, non merita di essere trattato con la sufficienza delle solite una-o-due palle di critica riservate al solito fumettaccio. Un po’ più di attenzione la merita, dico io, non fosse altro che per la cura con cui è ricostruito l’ambiente umano e animalesco di questo circo “Benzini”, che di italiano peraltro ha solo il nome. Si ha visione di numeri in oscillazione fra la baracconata e la pretenziosità che, inquadrati nell’America anni Trenta, non fanno stridore con la verità storica. Altro è il discorso quando, per esigenze di copione, si approda alla scena del proprietario il quale, furibondo con l’elefantessa fuggita in strada, la punisce poi con il pungolo coprendola di ferite come neanche un macellaio, per insegnare al veterinario novellino che questa è la disciplina che il circo impone agli animali da che mondo è mondo. No amici, qui non ci siamo. Non perché nel circo non si sia mai effettuata crudeltà alcuna verso gli animali, sarebbe spudoratezza affermarlo, ma perché il film sembra dirci che allora (e magari, guarda caso, anche oggi) la logica della violenza sugli animali era l’unica dominante. E no, qui non ci siamo proprio. Posseggo fior di testimonianze scritte, in tema di circhi americani di fine Ottocento e primi del Novecente, che al di là delle consuete enfatizzazioni nel riferire – inevitabili nei circensi ma se è per questo pure nei giornalisti, e lasciatelo dire a chi è del ramo! – ottenevano risultati spettacolari anche perché consapevoli che certi maltrattamenti, in special modo con quei colossi vendicativi che sono i nostri pachidermi, risultati positivi alla lunga non ne davano. Sarò malizioso ma in questo caso è netta in me l’impressione che autrice e regista si siano dati una mano per sfruttare al massimo la partecipazione emotiva del pubblico animalista unitamente a quella del pubblico tradizionale, anche se poi il finale – e anche questo è giusto sottolinearlo – non suona affatto come un giudizio di condanna per chi vive la vita circense in compagnia degli inseparabili animali.
Mi par chiaro in definitiva che il film, imperniato su un drammatrico menage-a-trois a cui il mondo circense, con le sue reali passionalità e le sue reali gelosie, presta volentieri il copione, sia adatto a molti ma contenga pure quella punta di velenosità che basta a rendere appagato pure lo spettatore animalista (per cui parlar di circo è oggi come parlar del diavolo). Chiuderei il discorso così: bambini in platea, assolutamente no. Quanto agli adulti, ciascuno può ritagliare a proprio uso dalla pellicola le sequenze che preferisce. Perché siamo in presenza di un film dotato di astuzia, che i suoi veleni li sa coprire sotto l’ampio mantello del drammone pronto ad aprirsi pure a qualche lacrima.
Ruggero Leonardi