Un bellissimo ritratto di Walter e Moira scritto da Ruggero Leonardi. Una decina d’anni fa, quando entrambi erano ancora fra noi. Ma ora, che si sono riuniti da un’altra parte (e chissà che gioia per loro) questi ricordi acquistano un valore ancora più bello.
di Ruggero Leonardi
Su un taccuino in odore di anni ’70 ho recuperato questo spezzone di dialogo. Lui a lei:“No, i leoni no: bisogna urlare, bisogna agitare la frusta e una donna queste cose non le fa. Ma le tigri sì: meccanismo perfetto, eleganza femminile assicurata”. Lei a lui: “Però le tigri mi mangiano”. Lui: “Se non sbagli non ti mangiano”. Lei: “Però se sbaglio mi mangiano”. Lui: “Non devi sbagliare”. Lei: “Però posso”. Lui: “E allora ammettilo, che sei un’interdetta”. Il taccuino contiene anche il finale. Lei non voleva ammetterlo ed entrò in gabbia, accanto a lui ma rigida come un baccalà sotto il fuoco degli sguardi felini. “Queste tigri”, gemeva, “guardano tutte me”. “E chi vuoi che guardino”, si spazientiva lui. Uscì subito e con un gran mal di reni. Ma poi tornò in gabbia, e ci restò anche quando lui uscì dalla gabbia e lei, lì sola fra le tigri che la guardavano, si sentiva morire. Il resto è storia nota anche perché, come ognuno avrà ben capito, il taccuino si riferiva a Moira Orfei e Walter Nones. E chi altri, se non quei due. Sa il cielo quanto sono diversi, sa il cielo quanto sono uguali. Ma non c’è bisogno di scomodare il cielo per capire come mai siano coppia vincente.
La prima volta che li ho incontrati, non era proprio il momento giusto. Il circo era a Cagliari e lui era uscito dalla gabbia tenendosi con una mano l’altra mano colpita dall’unghia dell’amatissima leonessa Nora. Lei mi parlava e lui stava in silenzio, perché niente al mondo l’avrebbe indotto a lamentarsi davanti a un estraneo. Però il suo non parlare diceva più di quanto mi dicesse lei. Poi il dolore si attenuò e tirammo le due di notte davanti a una tavola apparecchiata. Lei mi parlava del suo problema di tenerlo lontano dall’assedio delle ammiratrici che gli inviavano bigliettini invitanti attraverso il nano del circo. Lui ovviamente non mi parlò di questo, ma di tutto il resto sì. E da quella sera io non riesco mai a pensare all’uno senza pensare all’altra (o viceversa).
Se ho scritto un libro sul leone (edito dalla SEI) è perché, oltre a essere malato d’Africa, sono malato di circo, e avevo voglia di scrivere del leone nel circo, e avevo voglia di scrivere dei leoni di Walter Nones. Mi aveva colpito una sua leonessa, Mary, dal volto macchiato di nero, che eseguiva un certo esercizio, pur non essendo mai stata istruita a farlo, perché aveva spontaneamente deciso così dopo averlo visto fare da un’altra leonessa con cui era in competizione per avere i favori del suo addestratore.
Quando vedevo Walter in gabbia, mi veniva in mente quanto mi aveva raccontato in altra occasione. Aveva frequentato studi regolari presso un fior di istituto religioso e piaceva ai suoi insegnanti ma con loro aveva fatto patti chiari: non si mettessero in mente di vederlo un giorno con la tonaca. Lui studiava il latino ma anche il tip tap, e quello (il tip tap e consimili) avrebbe fatto un giorno. Bastava vederlo un attimo con i suoi leoni per capire che la vocazione sacerdotale non aveva perso niente. Il suo posto era lì, in quella finta sfida con il leone, in quella mimica per ottenerne la sbruffata in cui ai miei occhi si evocavano plasticamente le sfide del “mansuetarius” di Roma antica. Domatori bravi, e talvolta più che bravi, ne ho visti tanti. Ma quel brivido lì, eh, quello solo con lui. Lui, mezzo circense e mezzo montanaro, mezzo uomo-spettacolo e mezzo uomo d’affari, ma tagliato dalla natura perché al momento giusto la figura ludica trionfi decisamente sull’altra.
Di quei momenti ho nostalgia anche perché mi riconducono agli anni ’70 che, quanto a vitalità circense, sono stati davvero una fonte privilegiata. Ma ho scoperto di recente che in lui è ben più della nostalgia: è ancora voglia, è ancora vita da vivere. Certo è la necessità, qualche volta, a spingerlo a sostituire il figlio Stefano in gabbia, ma certo non è solo la necessità. Mi ha spiegato che l’unica difficoltà – e vorrei vedere che non fosse così, in presenza di felini dai meccanismi perfetti come orologi svizzeri! – è nel salire sull’altalena dietro la tigre, perché in una fase di equilibrio estremamente delicato come quella l’animale avverte alle spalle un partner diverso dal solito e minaccia il rifiuto. Ma gli occhi brillano, quando parla di questo: ed è in quei momenti che tutti dovrebbero vederlo, quando lo sbrigativo uomo d’affari circensi getta la maschera per svelare un altro Walter.
Moira, poi. Sì, lo sappiamo che problemi di salute non le consentono più di essere in pista quanto vorrebbe. Ma su di lei io ho un’idea ben chiara ed è questa: Moira, in realtà, dalla pista non esce neppure quando sembra starne lontana. Fece sbellicare dalle risa mia moglie, tempo addietro, raccontando le botte sul posteriore subite durante le sue uscite con il calesse per salutare il pubblico a fine spettacolo a causa degli incerti umori del cavallo.
E’ un modo di raccontare, il suo, che di per sé è spettacolo di circo. Ho avuto occasione di rifletterci sopra un pomeriggio di novembre 2005, a Milano, quando sulla pista del suo circo è stata allestita la proiezione di un documentario di 60 minuti di Carlo Bevilacqua intitolato “Moira Orfei, Amori e Fiori” (dove “Amori e Fiori” è l’anagramma di Moira Orfei. Orfei). Moira parlava del suo cinema, degli uomini che l’avevano corteggiata, del solo uomo da cui non si sarebbe staccata mai (mentre l’uomo, Walter, cosa inaudita in lui, non nascondeva di avere gli occhi lucidi!) e io dentro di me pensavo a quel che può significare l’espressione “autenticità circense”. Verità, soltanto la verità, nient’altro che la verità? Ma per carità, sarebbe arrecare oltraggio a quel reinventore di verità che è in generale il Circense con la C maiuscola, e in particolare alla degna nipote di quell’eccelso spargitore di verità circense che è Orlando Orfei.
Autenticità circense è essere sempre in sintonia con le proprie radici, essere figlio, o figlia, di circo sul set del grande regista come in mezzo a una arena, davanti a una tazza di caffé come davanti a un presidente della Repubblica. Autenticità circense è essere circo e sentirsi di esserlo. Come fa Moira, che non smette mai. Conclusione. E va bene, Moira e Walter qualche annetto ce l’hanno ma è solo un loro fatto anagrafico. La verità circense è un’altra e il pubblico lo sa.
L’articolo è stato pubblicato sul mensile Circo, febbraio 2007.