|

Un tendone come casa

Il circo di Spagna della famiglia Carbonari (foto tratte dalla pagina facebook del circo)

>

>

Non di rado la pista del circo è stata definita come il «cerchio magico», un luogo dove la realtà quotidiana si trasforma per lasciare spazio a un’altra dimensione, quella del gioco, dell’emozione, della spensieratezza infantile. Ma quello che è il cuore pulsante del circo, a forma di anello per esigenze funzionali (difficile far correre i cavalli in un quadrato!), è riuscito ad andare molto oltre la sola dimensione onirica e ludica per diventare, nel tempo, il simbolo di un vera e propria comunità internazionale. È questa la prima vera «magia» che avviene sotto lo chapiteau (il tendone), la grande casa che riunisce le famiglie del popolo itinerante. Il racconto del circo, dunque, non può partire che da qui: da quando decine di braccia si uniscono in quello sforzo collettivo che da secoli i circensi mettono in atto per costrui re il loro tetto comune, il tendone, appunto. È un rito che gli oltre 130 circhi italiani ripetono con cadenze incessanti e secondo una ben precisa liturgia non scritta, simile a sé stesso in ogni parte del mondo.
Come in una piccola Babele gli idiomi si mescolano tra urla d’incitamento e richiami, secchi come schiocchi di frusta. Il più esperto non comanda, ma guida. La fiducia degli altri, unita al rispetto di chi ha più mestiere, fa sì che la grande tenda si alzi e si spieghi senza esitazioni. Tutt’intorno, i carri e i grandi camion cui vengono ancorati i tiranti. Dall’alba alla sera, il campo è pronto. Un gigante dalle tinte sgargianti si erge maestoso e lucente dove prima esisteva solo un piccolo spiazzo di terra incolta, di soffice erba o di ruvido asfalto, ma che mai si sarebbe potuto immaginare capace di contenere una così ampia fetta di mondo. Sui volti delle donne del circo traspare l’orgoglio per il faticoso lavoro che gli uomini hanno portato a termine, ancora una volta tra le tante, infinite volte. Ogni decina di giorni – talvolta anche molto meno – il circo cambia piazza e il collaudato meccanismo della carovana si rimette in moto.
LA NAZIONALITÀ NON CONTA Molti lavoranti del circo provengono dall’Europa orientale, dai Balcani e dall’Asia. Sotto il tendone, tutti hanno trovato un approdo sicuro nel corso del proprio cammino. Per alcuni si tratta di una sosta solo provvisoria, mentre per altri il tempo non è una variabile da considerare. Guardandoli, viene da pensare agli equipaggi degli antichi vascelli. «Chiamatemi semplicemente Ismaele», così potrebbe iniziare il racconto di ciascuna delle loro vite, proprio come nell’incipit dell’epico romanzo Moby Dick. Non importa da dove vieni o dove andrai un giorno. «Apparteniamo al mondo», rivendicano con apparente noncuranza i circensi.
Eppure, un’origine, anche se si perde nei secolari cammini dei popoli, esiste anche per loro. La ricostruiscono alcuni storici delle migrazioni che, seguendo a ritroso le tracce lasciate dai nomadi sinti, ritengono di averla individuata nel Sindh, un’antica regione dell’India orientale (oggi in Pakistan), là dove un tempo esisteva l’Hindustan. Da lì nell’XI secolo tutto avrebbe preso le mosse, per giungere, circa tre secoli più tardi, in Europa, attraverso l’impero Bizantino. Ma questo percorso è così antico che equivale a dire che l’umanità discende da Adamo ed Eva e generalmente suscita nei circensi, come unica reazione, un’alzata di spalle.
Gente strana i «fermi» (come loro chiamano i non circensi), con il pallino della provenienza geografica degli altri. L’ipotesi si fa, tuttavia, accattivante se si pensa che molti lavoranti del circo provengono oggi pressappoco dalle stesse aree da cui si dice abbia avuto origine il circo, cioè dal Punjab indiano, e appartengono all’etnia sikh.
Il suo vero nome è Lovepreet Randhawa, ma lo chiamano Sonny. Ha 23 anni e parla volentieri del percorso che lo ha portato a lavorare nel circo. Il suo arrivo in Italia è stato lungo e tortuoso, con un viaggio che dal Punjab lo ha portato prima in Russia, poi in Danimarca, Germania, Francia, per approdare infine in Italia. Sonny è partito a 19 anni dal distretto agricolo di Amritsar – il cui capoluogo omonimo conta quasi un milione di abitanti – in cerca di nuove opportunità, ma si è scontrato subito con il muro di gomma della burocrazia e dell’indifferenza. In Italia avrebbe voluto fare il barista o l’agricoltore e prima di imbattersi nel Circo di Spagna, in cui oggi lavora, non aveva mai pensato che il destino lo avrebbe portato a proseguire il suo viaggio in una carovana.
Nel circo Sonny ha trovato accoglienza, un lavoro legale, nuovi compagni e amici. «L’inizio non è stato facile – racconta -, ma poi ho imparato il mestiere e ogni sera scendo in pista anche se solo come inserviente». Un giorno forse diventerà un artista. «Non bisogna mai smettere d’imparare», spiega con l’aria saggia e determinata di chi ha un sogno da inseguire. Il suo è quello di tornare un giorno a casa, con abbastanza soldi in tasca e la fama di chi ce l’ha fatta. Vuole sposarsi e prendersi cura della propria famiglia. «Quando tornerò sarà una grande festa e i miei genitori saranno fieri di me», dice sognando il suo futuro.
L’INTEGRAZIONE NEL DNA Gli uomini come Sonny nel circo sono una moltitudine e poco cambia se si chiamano Artiom, Nicoleta, Bobo o Ahmed, il loro incontro con il circo è sempre casuale e quasi mai la presenza di persone tanto diverse tra loro genera conflitti. Tutti hanno qualcosa da fare: vendono i biglietti, si occupano della manutenzione, accolgono gli spettatori, si prendono cura degli animali, assistono gli artisti durante lo spettacolo. Tutti trovano, comunque, pari dignità in ciò che fanno. Il perché lo spiega con evidente semplicità Sergio Casu, nato e cresciuto in un piccolo circo della Sardegna e approdato al Circo di Spagna per amore di una circense della famiglia Carbonari (la famiglia che ha fondato questo circo). Artista generico e domatore di animali feroci in gioventù, oggi Casu è uno dei proprietari, insieme ai Carbonari e alla famiglia Montico, e si occupa tra le varie cose della gestione delle piazze. «Il circo si fonda sulla diversità, è questa la sua infinita ricchezza. Ciò vale per gli operai e i lavoranti, che provengono da mezzo mondo, ma anche e soprattutto per gli artisti. L’accoglienza e l’instaurazione di buoni rapporti sono fondamentali per la riuscita di uno spettacolo. Senza una perfetta armonia fra le persone il circo andrebbe a fondo».
L’integrazione di chi è diverso è nel Dna del circo se si pensa che, fin dai tempi più remoti, proprio nel circo trovavano rifugio e accoglienza tra i saltimbanchi le persone che per la loro diversità erano emarginate o escluse a livello sociale: nani e donne barbute, persone deformi e giganti, personaggi esotici o più semplicemente stranieri.
Ancora oggi, in effetti, la gente del circo genera inquietudine tra i residenti delle varie località in cui si ferma. Luoghi comuni e poco nobili atteggiamenti di sospetto verso chi appare diverso sono elementi che scavano spesso un profondo fossato tra i «gaggì» (le persone che non sono del circo) e i «dritti» (quelli che invece ne fanno parte). «Vedrete adesso se non aumenteranno i furti», è uno dei tanti ingrati commenti che si sentono mormorare a mezza voce. Una realtà che stride con i ricordi d’infanzia di Casu, che ama raccontare di quando l’arrivo del circo nei paesi era una festa e la gente accoglieva con gioia la presenza dei circensi: «Ci trattavano come se fossimo veri attori, dei fenomeni per le nostre abilità atletiche».
L’unico nemico del circo per un certo tempo è stata la televisione, ma il padre di Sergio Casu – un clown con un volto molto brutto, ma che si faceva chiamare «Aldo Bellobello» – riuscì con astuzia ad arginare la minaccia: «Portò nel tendone uno dei primi televisori annunciando al paese che prima e dopo “Canzonissima” il pubblico sarebbe stato allietato da uno spettacolo d’intrattenimento!».
UN MONDO IN TRASFORMAZIONE I nemici attuali sono molto più insidiosi per la sopravvivenza di questa antica tradizione. È difficile per un clown competere con i videogiochi, per un trapezista emozionare più di una corsa in motorino o per un giocoliere affascinare più di una serata in discoteca. Anche Giorgio Montico, discendente da generazioni di circensi piemontesi, scuote la testa sconsolato di fronte alle tribune mezze vuote: «Bisognerebbe spiegare ai genitori che non c’è divertimento più sano del circo per i loro figli».
Un’affermazione che riaccende lo sguardo anche di Claudio Carbonari, 96 anni, il capostipite del Circo di Spagna. Un uomo che ha vissuto gli orrori della seconda guerra mondiale e che, per non avervi voluto prendere parte, è stato arrestato dai nazisti. Dell’immediato dopoguerra ricorda la gioia della liberazione da parte degli americani e la fame, quella vera e profonda, quella che, alla soglie del secolo di vita, al solo ricordo ancora gli brucia lo stomaco. Un malessere che passa subito però, non appena posa gli occhi su Christian, 4 anni, il più piccolo della famiglia. Non c’è tempo per la noia in una famiglia di circensi e, soprattutto, non c’è tempo per l’effimero.
I ragazzi che, sempre più spesso, studiano all’Accademia d’arte circense – che ha sede a Verona – la mattina si esercitano e il pomeriggio/sera lavorano in pista. Una vita dura agli occhi di molti – e in effetti lo è -, ma raramente si trovano nelle società dei «fermi» legami familiari così stretti e adolescenti così sereni ed entusiasti della propria vita, aperti agli altri e al mondo.
Taylor, Sharon, Claudio e Claire, hanno tra i 14 e i 17 anni, e sono acrobati, trapezisti e giocolieri, ma si adattano con disinvoltura anche ad altri ruoli che lo spettacolo di un circo richiede. Hanno «mangiato pane e spettacolo» fin da quando sono nati, conciliando la scuola – che i giovani artisti frequentano con regolarità in ogni località dove sostano – con la grande passione per la tradizione artistica di famiglia. Molti di loro hanno il proprio profilo sui social network, divenuti ormai strumenti essenziali per mantenersi in contatto tanto con gli amici «fermi» che con quelli «itineranti». La lista delle loro amicizie copre quasi tutti i continenti e quando non vestono i costumi di scena non li distingui dai loro coetanei. Conoscono bene le tendenze delle mode e si tengono aggiornati sui successi musicali, con un vantaggio però su tutti gli altri: loro hanno input internazionali sempre di prima mano.
Osservare il loro entusiasmo mentre si preparano a scendere in pista è straordinario, ridono e scherzano come se stessero per partecipare a una festa. Poi, all’improvviso, prima di varcare il sipario che li separa dal pubblico raggiungono una concentrazione impenetrabile. Buio, luci, la voce del ring master e il cerchio magico li inghiotte. Resta soltanto l’applauso degli adulti e lo stupore dei bambini. La ricompensa che per questi artisti vale di gran lunga più degli incassi, spesso assai magri, di un’intera stagione.
Stefano Leszczynski

Sei sacerdoti per il popolo del tendone
San Giovanni Bosco arrivava a fare il saltimbanco per attirare i giovani. È anche per questo che è stato scelto come patrono dei circensi. L’esempio di don Bosco viene citato da don Luciano Cantini, già responsabile della Pastorale dei circensi e dei giostrai della Conferenza episcopale italiana, come un riferimento chiaro per la Chiesa nella cura pastorale dei nomadi del circo. Un compito tutt’altro che facile per i sei sacerdoti, che cercano di seguire, insieme a una ventina di diaconi, le centinaia di famiglie che vivono sotto i tendoni d’Italia.

Prete clown. Don Luciano Cantini

Don Luciano, conosciuto nell’ambiente come il «prete-clown» per avere sperimentato la vita dell’artista in ambito circense, parla però con rammarico della «poca attenzione che la Chiesa istituzionale riesce a dedicare ai circensi». «Molti sacerdoti – osserva – nutrono pregiudizi per l’apparente promiscuità della vita di carovana e confondono i costumi dello spettacolo con i costumi di questo “popolo silenzioso”». Il problema maggiore per i cattolici circensi è che non esistono parrocchie di riferimento. Manca anche un rapporto con le comunità stanziali, a meno che i parroci locali non si prendano la briga di recarsi essi stessi a visitare il circo per tentare di stabilire un rapporto. È difficile che i circensi riescano a recarsi alla messa nelle Chiese locali, ma spesso apprezzano la possibilità di svolgere le funzioni religiose sotto il chapiteau. Del resto è questo il luogo che per loro rappresenta il simbolo della collettività, come il campanile per i paesani. Il senso della preghiera è forte e battesimi, comunioni e cresime (quando il vescovo è disponibile) si celebrano volentieri sulla pista. «La preparazione religiosa e spirituale tuttavia presenta notevoli difficoltà organizzative: quando ci sono volontari o operatori pastorali disponibili si cerca di fare catechismo e poi si finisce per improvvisare – spiega don Cantini -. Quando sono stato responsabile nazionale andavo sul luogo dove era impiantato il circo per alcuni giorni e cercavo qualche collaboratore. Ma bisogna inseguire la carovana per poter instaurare una vera relazione». Tra i molti problemi che una pastorale per i circensi dovrebbe affrontare vi è poi quello del contrasto delle sette religiose, che – anche se non trovano per ora terreno fertile nel mondo del circo – diffondono messaggi confusi e contrastanti con quelli della Chiesa cattolica.

Il servizio è tratto da Popoli, ottobre 2011

Short URL: https://www.circo.it/?p=9695

Comments are closed

Archives

Comments recenti