Per chi non se ne fosse accorto, assistiamo ad una contestazione puntuale e sistematica di tutto quanto coinvolge gli animali.
Allevamento, commercio e detenzione di cani e gatti, galline, bovini da carne e da latte, suini, piccole specie, animali da zoo ed esotici in genere, selvatici, parchi con animali, stabulari, circhi, mostre, negozi, corse di cavalli e relativi allevatori, spettacoli equestri, aziende agricole e lattiero casearie, filiera produttiva zootecnica, parchi di addestramento o educazione cinofila e specie marine… tutto da chiudere!
Se si accorgessero che le api domestiche sono allevate per il miele, probabilmente salterebbe fuori una campagna per la loro “liberazione”, come accade per gli animali da pelliccia, morti di stenti e di incidenti attorno ai loro ricoveri.
L’opinione pubblica sembra voler trasferire sugli animali l’ormai superato “mito del buon selvaggio”, di stampo ottocentesco, che vedeva individui primitivi in armonia con la natura come archetipo della perfezione sociale. Perfezione, secondo i teorici del tempo, irrimediabilmente corrotta dall’avvento della civiltà.
Dire che gli animali stanno sempre meglio in natura, piuttosto che in allevamento, rappresenta un arretramento culturale e di conoscenze che annulla la cultura stessa dell’allevamento, la ricerca per il miglioramento delle produzioni, lo sforzo scientifico e l’impegno economico di tutti i Paesi avanzati in questa direzione.
Vuol dire abbindolare tante persone inconsapevoli, privi di esperienza e conoscenza diretta, con una specie di “mito del buon selvaggio” in versione animale.
La natura prevede l’equilibrio dei numeri tra le specie attraverso il limite delle risorse (cioè la fame) o le malattie. Vi è lotta per la sopravvivenza e la riproduzione, impatto diretto del contesto territoriale e delle avversità meteorologiche. Un animale che si ferisce, spesso muore. Dare a tutto questo un aspetto bucolico è surreale, esattamente come non riconoscere gli sforzi fatti dall’uomo per togliere agli animali allevati pressione selettiva, fame e malattie. Non è infatti chi si occupa di animali professionalmente colui che fa gli errori maggiori, ma il proprietario inesperto, che ingrassa il cavallo in paddock per tutta la settimana e la domenica fa 40 km, oppure non si accorge di un unghia del proprio amato cane incarnita nel polpastrello per più di un centimetro.
Da questo “fai-da-te” culturale nascono contraddizioni evidenti, come affermare che dobbiamo nutrirci esclusivamente di vegetali ignorando gli studi che ne rivelano la capacità di percepire dolore, o volere una medicina veterinaria per gli animali, senza ammettere una ricerca e sperimentazione seria su quanto andremo a somministrare loro.
Nessuno si accorge dei cani condannati al canile a vita, e del giro di soldi neri delle adozioni. Guai a dire che è maltrattamento! Ovviamente quelli “rendono” alle persone giuste.
Gli interessati al lungo elenco di attività “da chiudere” sopra riportato, non sembrano aver percepito l’organicità del disegno e si sono limitati finora a guardare come episodi isolati l’allevamento attaccato, il bio-parco danneggiato o le critiche alla manifestazione con animali di questo o quel luogo.
Non hanno ponderato la straordinaria disponibilità economica delle campagne di comunicazione, il ricorso sistematico a professionisti o Opinion-Leader, la capacità di nascondere gli scandali all’opinione pubblica, il progressivo trasferimento di competenze dall’agricoltura agli affari sociali (terreno più propizio e condiscendente), la creazione di corpi di guardie zoofile e la loro dotazione e finanziamento, il coinvolgimento di esponenti della politica che si vedono in tal modo garantita una presenza mediatica costante.
Purtroppo è possibile arrivare, passo dopo passo, alla neutralizzazione di interi settori, perché le leggi nazionali sono talmente articolate che chi prende di mira una realtà produttiva ha gioco facile nel danneggiarla, specialmente se protetto da una sigla “onlus” che garantisce sostanziale impunità di fronte alla legge.
Le conseguenze economiche sono facilmente prevedibili: si parte con l’innocua frase di “impegnare il Governo a limitare qualcosa”, si rendono socialmente accettabili episodi come la violazione di una facoltà universitaria dove si fa ricerca, finendo per far chiudere per esasperazione le piccola realtà e trasferire all’estero le aziende più consistenti.
Le ripercussioni sull’economia sono evidenti. Un patrimonio dilapidato. Senza dimenticare “eventi collaterali” quali la perdita di produzioni tipiche nazionali di origine zootecnica di cui tanto ci vantiamo e non proteggiamo, le ricadute sul turismo con il continuo sfregio di manifestazioni dal richiamo mondiale come il Palio di Siena, vetrina di proteste con tanto di agenti e mezzi anti-sommossa. E poi fondi pubblici dilapidati in progetti inconcludenti (es. randagi a Pompei), perdita di entrate fiscali ed elusione attraverso servizi erogati da associazioni (o loro emanazioni), con trattamenti fiscali agevolati.
Molti colleghi medici veterinari sono stati accondiscendenti verso queste trasformazioni, illusi – come i produttori – che il danno riguardasse sempre “altri”, leggi i veterinari degli stabulari o quelli dei macelli, ormai vicini ad una professione semi-clandestina ed a volte sotto scorta. Solo ultimamente emergono le situazioni di sfruttamento a loro carico, mal pagati e ricattati da responsabilità decisionali (ad esempio sull’eutanasia degli animali incurabili) come una Spada di Damocle sulla loro attività.
La crisi evidenzia ancor di più le contraddizioni della veterinaria low cost, degli ambulatori nei canili o presso le aziende sanitarie.
Ma la moral suasion esercitata attraverso la pressione sull’opinione pubblica impone agli amministratori di non denunciare la spesa per cure veterinarie pubbliche, camuffate da prevenzione di un randagismo che continua ad aumentare, mentre si tagliano linearmente sanità e servizi sociali ai cittadini.
Chiudendo le attività produttive con animali, rendendo sempre più complicato detenere un animale e puntando ad una sanità pubblica per gli animali da compagnia (superstiti), appare evidente che lo spazio occupazionale e reddituale dei veterinari liberi professionisti non lascia intravvedere grandi prospettive.
I delfinari, con i medici veterinari che vi operano garantendo la salute di quegli animali, sono un tassello delle produzioni animali e dell’allevamento. Chi oggi afferma che i delfini ospitati non ridono, -l’espressione felice sarebbe da attribuire unicamente all’anatomia -, qualche tempo fa affermava che è dimostrato che piangono.
Chiedere ai cittadini attraverso onerosissimi sondaggi se preferiscono i delfini liberi in mare o nel parco acquatico è privo di significato per chiunque ragioni. Lo stesso esito si avrebbe chiedendo se preferiscono vivere al centro di una città inquinata e rumorosa, piuttosto che sulle dolci colline della Toscana. Il risultato è scontato ma non per questo chiuderemo Milano!
Dr. Angelo Troi – Segretario Veterinari Liberi Professionisti