Il circo classico incontra la tecnologia e annulla le distanze. Quelle percorse da Max e Steve Togni, in giro per il mondo con il loro Florilegio. Dal Marocco abbiamo intervistato Steve Togni, nipote di una delle icone più importanti del circo italiano: Darix Togni. “È difficile essere coerenti quando si parla dei propri cari, così voglio raccontarle un aneddoto. Un elettrauto, sapendo che io ero il nipote del grande Darix, incominciò a parlarmene come se fosse un eroe greco, fino a commuoversi. Non era né un parente, né un amico, solo qualcuno che aveva lavorato con lui”.
Essere un Togni significa innanzitutto portare quel cognome, discendere dai fondatori del primo circo nazionale, avere una famiglia intera da generazioni impegnata sotto e attorno al tendone. Ma significa anche fare i conti con i cambiamenti radicali di una società che è arrivata a criminalizzare le forme tradizionali di quest’arte e che ha via via, negli anni, ghettizzato e allontanato il circo dai circuiti dell’arte.
Quante cose sono cambiate, troppe! Una volta il circo era lo spettacolo più importante. Ora in Italia siamo considerati criminali, o perlomeno diamo fastidio, un fardello pesante per chi nel circo ci è cresciuto. Penso che la determinazione e la fede in questo mestiere siano le stesse per tutte le generazioni, ma le condizioni sono cambiate. Ci siamo dovuti allontanare dal nostro paese per poter fare il circo con dignità.
La tua vita e quella di Max sono inevitabilmente legate alla vostra storia famigliare.
Non siamo del circo! Siamo persone comuni che hanno studiato a Sanremo per decisione di mia madre – che ringrazio infinitamente – di darci un titolo di studio.
Qualche influenza deve averla avuta anche vostro padre, Livio Togni, fondatore insieme ai fratelli del Florilegio – circo innovativo. Nel ’90 il circo otteneva successi in diversi paesi europei come Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, Belgio. Con la nascita dell’Unione Europea la nuova generazione Togni veniva inserita nei parchi divertimenti Waliby Six Flegs, in Belgio. Non soddisfatti dell’esperienza, avete deciso di provarci e nel 2004 lasciate il continente europeo alla ricerca di nuovi mercati.
L’idea della seconda unità viene a papà Livio. Vista la spinta che si trovava all’interno dei ragazzi, ha deciso di espandere, invece di reprimere. I ruoli sono stati decisi da papà: io alla parte tecnica, artistica e alla gestione del personale, mio fratello alla parte burocratica. Nel 2005 avviene il distacco definitivo dal nucleo famigliare: abbiamo lasciato il continente per andare in Algeria in condizioni economiche precarie visti i debiti fatti per l’acquisto del circo. Lo spostamento al di fuori di una paese Ue vi garantisco non è semplice, comporta grandi rischi, ma sicuramente il lavoro era stato fatto bene, visti i risultati.
Questo grande salto è stata l’occasione, per te, di metterti alla prova come domatore.
Nel 2006 l’artista scritturato per lavorare con tigri e leoni aveva deciso di ritirarsi perché non gli piaceva il paese. Allora mi sono buttato nell’impresa, ottenendo risultati ottimali con tanta fortuna e non pochi incidenti, visto che mancavo di esperienza.
Il nuovo continente regala ai due fratelli successi e gratificazioni. Steve Togni in Algeria, Siria e Libano è considerato una star del circo: autografi, foto, guardie del corpo che quasi non sembra vero.
Noi tentiamo sempre di fare le cose al limite del nostro massimo e coltiviamo il nostro pubblico così da non deluderlo mai, e il raccolto è sempre più florido: siamo, credo, l’unico circo che riesce ad ottenere sponsor come Lamborghini, Ferrari, Armani. Tanti successi sono legati anche al tipo di organizzazione e gestione imprenditoriale. Il nostro circo non si può definire famigliare. Siamo in due e la cosa è gestita come un’impresa qualsiasi: si contano le ore delle persone e anche gli straordinari. Ovviamente è circo, ma senza quell’atmosfera famigliare che sinceramente ci manca. E il futuro ci riserva una linea ancora più aziendale e meno famigliare.
Una bella rivincita, insomma, per i fratelli che non sopportavano l’atmosfera italiana…
Abbiamo deciso di intraprendere questo mestiere perché non si vedeva in altri la voglia di prendersi la responsabilità di portare avanti il nome della famiglia, ma vista la pessima considerazione che si ha per il circo in Italia, abbiamo deciso che era meglio tentare di essere qualcuno in un altro paese. Io e Max abbiamo lasciato un certo tipo di vita e vi assicuro che non era male. I momenti più tragici riguardano il periodo più recente: abbiamo sofferto la primavera araba con tanto di guerra civile non vista, ma vissuta: obbligati a smontare il materiale e a evacuare, mi sono rifiutato per i miei animali. Ho visto persone morire, ma ci siamo organizzati in modo tale da superare il momento e continuare la tournée, cosa che il popolo algerino ha apprezzato moltissimo e anche le istituzioni pubbliche si sono dimostrate riconoscenti. Per essere trattati dignitosamente, prima di tutto bisogna comportarsi dignitosamente.
Come ti rapporti ai tuoi animali lo racconta meglio di ogni altra cosa questo episodio che hai appena raccontato.
Si. Credo che la vita dell’uomo sia più giusta in relazione simbiotica con gli animali, così come la natura l’ha creata e non schiavizzata come nei safari e negli zoo metropolitani (lo trovo disgustoso).
Cosa pensi della situazione circense italiana?
La situazione circense rispecchia quella dell’Italia tutta! Alcune persone ormai non hanno più moralità, dignità. Il circo italiano a quanto pare si è trasformato in un pretesto per attingere sussidi statali e niente di più. Ma questo è il rischio che tutta l’Italia corre. Non c’è solidarietà, sappiamo qual è il problema, ma non abbiamo il coraggio di risolverlo. Non abbiamo veramente niente in comune ai nostri discendenti (ultimo Garibaldi). Nel futuro l’obiettivo è riuscire a fare quello che i nostri discendenti hanno fatto per questo mestiere. Il luogo? Beh, dove ci permetteranno di farlo con dignità e in modo agevole e piacevole anche per noi che già sacrifichiamo tanto per questa impresa. Una volta raggiunto l’obiettivo vorrei fermarmi per fare qualcosa di più semplice, di meno impegnativo, che mi permetta di vivere un po’ più per me stesso.
Un sogno lasciato nel cassetto e che vorresti tirare fuori?
Ho pensato seriamente di continuare a giocare a tennis professionalmente e magari poi come maestro istruttore. Ho sempre avuto una passione per questo sport e se non mi fossi chiamato Togni avrei continuato la carriera tennistica. Sono però molto contento della scelta che ho fatto: ho vissuto cose incredibili tre volte tanto di quello che avrei potuto vivere se fossi rimasto a Sanremo.
Valentina Maggio
L’intervista a Steve Togni è uscita sul numero di luglio della Rivista Circo.