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Solo il clown può salvarci dalla stupidità e dalla volgarità dilaganti

Grock (foto archivio Cedac)

di Alessandra Farneti

Alessandra Farneti
Da percorsi lontani nel tempo e nello spazio, per vie tortuose, spesso piene di insidie, il clown è approdato al ventesimo secolo, con la sua vecchia valigia piena di sogni ma anche di dissenso e di ribellione. L’emblema della sua dolce protesta prende corpo in Charlot e assume volti diversi nei grandi del teatro e del circo: Debureau, Footit e Chocolat, Decroux, Grock, Rivel, Marcel Marceu, hanno tutti contribuito, in modi diversi, alla trasformazione di Pagliaccio in una maschera tragicomica complessa, dai mille volti, con una mimica talvolta raffinatissima, talvolta grottesca, sempre auto-ironica e contestatrice dei valori dominanti.
Qualcuno come Charlot nel cinema, Grock e Rivel nel circo, sono divenuti personaggi popolari, altri sono rimasti degli intellettuali che hanno lavorato nelle sfere elitarie di un teatro per intellettuali, un po’ fuori dai circuiti mediatici, lasciando, tuttavia, scuole d’eccezione e un’eredità importante.
E’ difficile, oggi, tracciare una linea che possa congiungere strade così lontane fra loro che sembrano, tuttavia, indicare una regione di confine in cui si rifugiano attori “speciali”, accomunati solo dalla caratteristica di recitare se stessi e non un copione o un canovaccio.
Grock distingueva fra “attori” e “artisti”, sostenendo che i clown sono artisti e non attori, pertanto insostituibili e costretti a lavorare con instancabile volontà per mantenere vivo il loro personaggio fino alla morte.
Chaplin nel film Il Circo
La vita di un clown è esercizio psico-fisico costante, ricerca continua di un gesto significativo, che esprima quella sua particolare individualità e, tuttavia, sia capace di trasmettere un messaggio universale comprensibile a tutti.
Siamo ben lontani, dunque da quello stereotipo di pagliaccio che fa ridere i bambini e viene guardato con sufficienza dagli adulti, dal comico di basso lignaggio che fa sberleffi e pernacchie!
Se si chiede agli adulti come immaginano un clown essi rispondono, nella stragrande maggioranza, che il clown veste abiti coloratissimi, ha un trucco vistoso, scarpe grandi, un sorriso stampato in faccia, una parrucca e un cappello in testa; si esibisce per strada o in circo e il suo scopo è quello di divertire i bambini. E’ l’immagine parziale e riduttiva di un Augusto di circo, guardato solo nella sua più grossolana apparenza ma è quello che “si sa” in genere del clown.
Ben pochi comprendono il suo messaggio dissacrante e la sua “stupidità” voluta e studiata come innocenza riconquistata, come corpo “ingenuo e primordiale” che sa esprimere emozioni fondamentali, spogliate di quella ingombrante ragione che le schiaccia sotto il peso delle regole e delle censure sociali.
Questo clown, che percorre le strade dell’immaginario infantile, arricchendolo della creatività adulta, è quello di cui vorremmo parlare qui, per spezzare una lancia in suo favore, riscoprendolo come professionista di altissimo livello, spesso considerato, invece, soltanto come un simpatico animatori di feste e sagre paesane.
La giocoleria, la prestidigitazione, la musica, l’acrobazia, il mimo, la pantomima, sono i mezzi che il clown usa per comunicare una filosofia di vita e un messaggio che, come abbiamo visto, vengono da molto lontano.
Giulietta Masina, Gelsomina in La Strada
E’ solo guardando ai grandi interpreti di questa filosofia che possiamo avvicinarci al vero mondo del clown.
Fellini è forse stato il più straordinario di questi interpreti. A parte il capolavoro per eccellenza, La Strada, in cui l’indimenticabile Giulietta Masina nei panni della clownessa Gelsomina dà vita ad un personaggio di profonda intelligenza emotiva, molti dei film di Fellini hanno le loro radici nel mondo dei clown, creature capaci di esprimere al meglio la fantasia onirica del regista.
Otto e mezzo, La voce della Luna, Amarcord, fino a I Clowns, (in cui celebra una fine tragicomica del circo), hanno radici in quel circo divenuto per Fellini la metafora della vita stessa, delle sue luci e delle sue ombre.
“Il clown”, spiega Fellini, “incarna i caratteri della creatura fantastica, esprime l’aspetto irrazionale dell’uomo, la componente dell’istinto, quel tanto di ribelle e di contestatario contro l’ordine superiore che è in ciascuno di noi. E’ una caricatura dell’uomo nei suoi aspetti di animale e di bambino, di sbeffeggiato e di sbeffeggiatore. Il clown è uno specchio in cui l’uomo si rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. E’ proprio l’ombra. Ci sarà sempre… Per far morire l’ombra occorre il sole a picco sulla testa: allora l’ombra scompare. Ecco: l’uomo completamente illuminato ha fatto sparire i suoi aspetti caricaturali, buffoneschi, deformi. Di fronte ad una creatura tanto realizzata, il clown – inteso come il suo aspetto gobbo – non avrebbe più ragione di essere.”
Ed è contro questo uomo “illuminato” che si leva il grido silenzioso dei clown, siano essi teatranti di fama internazionale o guitti di strada che mangiano fuoco e camminano sui trampoli: una lotta donchisciottesca contro la vera stupidità, quella che si ritiene intelligente e distrugge il mondo con le sue bombe e i suoi mostri volanti, con l’inquinamento dell’ambiente, con il totale asservimento al denaro di tutti i rapporti e di tutte le aspirazioni.
Un monito a tornare, seppur con fatica, alla speranza di potersi risollevare dalle cadute e dai fallimenti, riscoprendo gli occhi incantati di quel “fanciullino” pascoliano oggi divenuto solo un divoratore di cartoons, un consumatore in erba, un bambino invecchiato precocemente che non sa più giocare, un oggetto fra gli altri oggetti di un mondo adulto violento e violentatore.
Grock
La creatività del clown è una delle possibili vie per il ritorno dell’homo ludens di cui parlava Hiuzinga, un “passo contro” la volgarità dilagante, un viaggio dei diversi, sempre perdenti ma sempre vivi, nei tanti che si passano il testimonial in una corsa verso la libertà del pensiero e delle emozioni.
Questo clown non è solo quello che fa ridere, dunque, ma è un simbolo, uno specchio in cui imparare a guardarsi, per ritrovare la voglia di essere uomini, consapevoli della propria finitezza, che vivono non nel mito faustiano di una giovinezza eterna e dorata, ma nella fatica quotidiana di accettare i propri difetti, nell’umiltà di scoprirsi fragili come vasi di vetro eppure, proprio per questa fragilità, preziosi come i vasi di Murano (per citare Vittorino Andreoli).
Come psicologa, che da anni si occupa di clownerie come strumento di formazione, posso solo augurarmi, al termine di questa breve introduzione ad un mondo che pochi conoscono veramente, che in tanti si avvicinino all’arte del clown per assorbirne lentamente il profondo insegnamento socratico, per riconquistare, attraverso il gioco, occhi ingenui con cui guardare il mondo e sorprendersi della sua meravigliosa diversità; per non cadere nelle trappole di una competitività distruttiva; per imparare ad esprimere anche l’aggressività con rituali inoffensivi.

Alessandra Farneti insegna psicologia dello sviluppo alla Libera Università di Bolzano, dopo avere svolto la stessa docenza all’Alma Mater Studiorum di Bologna presso la facoltà di Scienze della formazione. I suoi interessi principali sono rivolti agli aspetti cognitivi e affettivi dello sviluppo infantile. Fra le sue attività di ricerca ci sono Il clowning come strumento formativo nelle scuola dell’infanzia e Il clown di corsia, ricerca finanziata all’Associazione Gelsomina Il clown al servizio della persona dall’Ospedale S.Orsola di Bologna. Nel 2008 ha pubblicato La formazione del clown di corsia (In Clown: la medicina del sorriso. Un percorso di formazione, Firenze, Giunti) e nello stesso anno Clown e comunicazione (In: Maria Menditto Comunicazione e relazione. Come gestire dialoghi e legami nel quotidiano. Trento, Erickson) e Cuoi Hoi thao ha tuy va cac te (trad.: Il clowning: un mezzo per rompere barriere. In: A.A. V.V. La droga e il disagio giovanile. Hanoi). Fra i suoi libri più noti al grande pubblico, La maschera più piccola del mondo. Aspetti psicologici della clownerie, Perdisa, Bologna, 2004.
Numerose le pubblicazioni, gli articoli in riviste specializzate e le comunicazioni a convegni sul tema.