“Da bambino, ciò che vedevo del mondo al di là dei miei immediati dintorni, lo vedevo dal sedile posteriore dell’automobile dei miei genitori. Era un mondo colto al volo, di passaggio. Era immobile. Godeva di vita propria e non sapeva – né gli importava – che io vi capitassi per caso in un dato momento. Come il mondo nei quadri di Hopper non ricambiava il mio sguardo.” Con queste parole il poeta americano Mark Strand (in Edward Hopper. Un poeta legge un pittore, Roma, Donzelli Editore, 2003) descriveva i suoi incontri con le opere del connazionale pittore.
Edward Hopper nasce nel 1882 a Nyack, in una piccola cittadina degli Stati Uniti sulle rive dello Hudson, e sin dai primi anni mostra un’inusuale tendenza alla solitudine e alla riflessione, che lo accompagnerà per sempre, e lo porterà spesso a sedersi sul ciglio della vita ad osservare attento il suo scorrere, come fosse quello del fiume natio. Sin dall’adolescenza il suo spirito artistico viene assecondato dalla famiglia, e lo porta ad iscriversi alla Correspondence School of Illustrating di New York, unendosi ad una perspicace intuizione: mantenersi agli studi lavorando come illustratore per agenzie pubblicitarie e riviste. Seguendo uno schema reiterato da quasi tutti gli aspiranti artisti di inizio Novecento, lo spirito e la passione lo guidano nel 1906 verso Parigi, dove incontra le opere di Sisley, Renoir e Pissarro, ma soprattutto scopre le linee cardine di una poetica artistica valida quanto la vita: una luce diversa, un’ombreggiatura luminosa, e nuovi motivi divenuti soggetti centrali, strade, edifici, fiumi, persone, tutti e ciascuno immobile … Ritornato in patria nel 1913 sviluppa queste tematiche, dando origine ad una serie di quadri che non fanno mistero della profonda influenza parigina. Nel 1914 nasce in questo modo, insieme a tanti altri, Soir Bleu. Il grande olio su tela, oggi conservato al Whitney Museum of American Art, coglie lo spettatore di sorpresa, quasi stessimo passeggiando, e all’improvviso girato l’angolo ci imbattessimo nel dehor di un piccolo ristorante. Nessuno sembra fare a caso a noi, nessuno tranne quella donna, unico personaggio in piedi, che pare essersi fermata nell’istante del nostro arrivo, come fossimo un’apparizione. Una donna dal trucco esagerato, quasi una maschera, che richiama le caricature che il giovane Hopper soleva fare da bambino, rivelando già la propria natura artistica. Tutti gli altri personaggi sono lontani, ciascuno impegnato in altri pensieri: l’elegante coppia seduta a sinistra, aspetta l’inizio dello spettacolo teatrale, ed inganna il tempo in un silenzio assordate, rotto in maniera devastante dall’arrivo di questa donna, un po’ troppo appariscente, che colpisce la dama; dalla parte opposta un operaio aspetta, forse un pasto, forse solo un po’ di compagnia. Tutti e tre in silenzio. Si ode solo il chiacchiericcio di quello strano trio centrale, l’inserviente vestito con gli abiti da lavoro, il domatore, o forse il direttore, con il vestito di scena, camicia azzurra, pantaloni rossi e giacca blu sulla quale fanno bella mostra di sé le mostrine dorate, ed il clown, con indosso il costume ed in volto il trucco di uno spettacolo non troppo lontano.
Il dipinto rievoca un incontro del tutto inusuale per il pubblico e la realtà americana, ma perfettamente inseribile nella quotidianità della Parigi di inizio Novecento dove il giovane Edward si era scaraventato mosso da fame artistica, nella quale, approfittando della fortuna riscossa presso il pubblico dal mondo circense, tanto i circhi viaggianti e gli chapiteau, quanto gli impianti stabili e i teatri di varietà s’andavano moltiplicando, affollando le strade d’ogni genere d’artista. Un incontro all’ordine del giorno dunque, di un giorno dalla quotidianità straordinaria.
I tre paiono conversare noncuranti dei presenti, ma non è così, quello che i primi due spiegano non ha nulla di interessante, il loro interlocutore è miglia lontano da loro, dallo chapiteau, dallo spettacolo appena concluso e di cui portano ancora i segni addosso, silenzioso e perso nel riflesso di una brocca, sospeso nei propri pensieri come la sigaretta sulle sue labbra, distante dalla conversazione in atto e dallo sguardo incredulo e indagatore dell’uomo in frak. Accade sempre qualcosa nei quadri di Hopper, che i personaggi sembrano poter tranquillamente ignorare, in questo caso è la nostra presenza, dichiarata solo dalla figura femminile in piedi. La scena è un ricordo delle serate parigine, così dense di incontri improbabili e di impalpabili presenze, e così il clown, nascosto nel trucco e negli abiti, veste con noncuranza una solitudine che mette a disagio, ci induce a proseguire oltre, continuando però a voltarci, portando lo sguardo sulla sua presenza\assenza.
Il quadro irrompe nell’immaginario dello spettatore con l’estrema normalità di un personaggio inaspettato, e lo fa con un effetto dilagante. L’esatto contrario del quadro Hammerstein’s Roof Garden, che William Glackens aveva dipinto nel 1901, portando su tela lo strano connubio parigino-statunitese. Da una parte una funambola, un’artista circense della più radicata tradizione prestata al teatro di varietà, affermata forma di intrattenimento francese ma ancora neonata sulle scene americane. Dall’altra le grandi innovazioni all’alba del nuovo secolo che oltremanica già andavano diffondendosi: la luce elettrica, esaltata dalla cura con cui vengono resi gli interni sapientemente illuminati da nuovi effetti di luce, e la presenza del pubblico femminile. Quest’ultima pare voler essere la reale motivazione del quadro, le dame della nuova borghesia americana, sedute in prima fila dinanzi lo spettatore con, ancora più in primo piano di loro stesse, i grossi cappelli, accessorio obbligatorio ed emblematico status symbol. Nessuno di questi tre elementi, la piccola funambola, l’elettricità ed il pubblico femminile, e nemmeno la loro compresenza riesce a stupire lo spettatore quanto il clown di Soir Bleu, così come la sua solitudine non ha nulla a che vedere con quella della piccola funambola, (la cui realizzazione manca di un reale punto di vista sottoinsù che le avrebbe dato senza dubbio più evidenza all’interno della scena): poetica e leggiadra quella in sinfonia di azzurri, solitudine devastante nella sua intima profondità quella del clown. Il suo stato emotivo è quello di un uomo e non del personaggio circense che egli interpreta all’interno di uno spettacolo, non si tratta del reiterato luogo comune del clown triste. Una persona presentata all’interno della scena, che colpisce per il suo essere clown solo l’elegante borghese seduto accanto a lui, gli altri neppure ci fanno caso, lo spettatore è coinvolto nella solitudine di questa presenza, completamente isolata dalla sua aurea di trovarsi in nessun posto, in questo solo per caso, e davvero solo nei propri pensieri.
La sua solitudine anticipa quelle che seguiranno nella produzione artistica di Hopper, l’infinito reportage delle dilaganti solitudini americane, fatte di luoghi e di persone, e tornerà assoluta protagonista in Automat: la scena proposta è la medesima, con la solitudine totale, ripulita di inutili orpelli e compresenze, ma non per questo meno totalizzante. Le opere di Edward Hopper appaiono quindi inanellate le une alle altre e ciascuna in sé stessa al filo trasparente dell’assenza, dell’attesa e della mancanza. “Le persone di Hopper paiono non avere occupazioni di sorta. Sono come personaggi abbandonati dai loro copioni che ora, intrappolati nello spazio della propria attesa, devono farsi compagnia da sé” (Mark Strand, Edward Hopper. Un poeta legge un pittore).
Emanuela Morganti