Rita Mazzon si presenta ai lettori di Circo.it: “La mia passione più grande è stata sempre quella dello scrivere. All’inizio era solo uno sfogo, successivamente ho fatto partecipi anche gli altri di quello che mi passava per la testa. Poesie, racconti di qualsiasi genere. Tutto diventa un pretesto per prendere la penna e dipingere fogli bianchi con i miei pensieri. Mi piace scrivere anche in vernacolo. Dal 2004 ho cominciato a partecipare a concorsi letterari, ottenendo diversi risultati positivi”. Ha partecipato al concorso Letteralmente Circo con il racconto Senza ritorno.
Senza ritorno
Aveva girovagato tra le strade, senza meta. Si era perso tra i pensieri, quelli che li facevano compagnia spesso, soprattutto quando i compagni lo allontanavano, lo escludevano, con la scusa che non sapeva giocare a calcio. Marco si affannava, quando gli capitava per sbaglio il pallone. Rimaneva un istante fermo. E in quell’istante perdeva ogni convinzione. Lui faceva goal con la fantasia. Si sentiva vincitore nella testa, mentre il compagno gli aveva già portato via il pallone.
Marco stava attraversando il ponte. Il fiume scuro con impeto aveva divorato a poco, a poco le sue sponde. Si era divincolato dalla morsa, come un cavallo imbizzarrito galoppava verso la libertà del mare.
Anche Marco avrebbe voluto essere libero. Non ascoltare più rimproveri. Non sentirsi costretto in quel vestito.
Stava lì a contemplare l’acqua. A chiedere come mai quel fiume, quantunque fosse così forte, non avesse mai deviato il corso.
Lui era debole, impotente verso quell’idea fissa, che lo cullava tutte le notti. Eppure era dolce immergervisi dentro.
Come quando si era ubriacato. Dopo un bicchiere di troppo si era sentito invadere da una gioia fino a quel momento addormentata. Un sogno a mezz’asta. Vedeva il mondo in una specie di sfera trasparente di vetro. Una boccia da capovolgere per scorgerci la neve. Marco toccava le cose, ma al tatto non ne capiva la sostanza. Tutto era sfocato, incomprensibile, eppure così penetrabile.
Sapeva solo che ciondolava, senza più sbattere addosso a spigoli duri. E quando la sbornia era finita si era rincantucciato in un angolo con mille pezzi di gioie conficcate fin dentro gli occhi, mille ferite che battevano in testa. Pulsazioni partorite da una malsana disistima verso se stesso.
Il ritorno porta la sconfitta nel grembo. Il ritorno non da slanci verso il nuovo. Molto meglio andare avanti. Perfino molto meglio spaccarsi, piuttosto che ritornare indietro.
Si diceva questo sul ponte, davanti a quel fiume che correva dalla sorgente fino al mare senza ritorno.
Con il braccio asciugò le lacrime dal viso. Si scosse. Passò il ponte. Andò verso il quartiere sulla collina.
A causa della salita slegò la tensione dell’affanno. Il groppo in gola si sciolse in un respiro forte sempre più denso che lo sfiancò.
Ora si trovava al di sopra delle case che conosceva. Ora poteva distinguere a mala pena il campanile della sua chiesa. Lui era lì in alto, mentre i suoi genitori erano ai suoi piedi.
Pensando a suo padre si passò la mano sulla guancia avanti ed indietro. Un gesto che voleva in qualche modo lenire quello schiaffo dato all’improvviso, senza un motivo logico, o una ragione valida.
Si ricordò il viso di sua madre. Come poteva farla stare in pensiero? Come poteva non ritornare da lei, lasciarsi avvolgere dalle sue braccia, far placare la sofferenza, il pianto?
Ormai però era passato troppo tempo.
La testa fantasticava verso la porta della sua casa, che avrebbe potuto anche aprirsi, mentre le gambe continuavano il cammino sempre più avanti.
Camminava lentamente con il capo chino. Contava i passi.
Il viale, al culmine della salita, ora scendeva, come se non avendo più fiato, si volesse gettare giù in una discesa.
La sua città era grande. Offriva prospettive diverse. Quella zona non l’aveva mai vista. Case alte senza terrazzi ampi, ma piccole finestre lunghe. Occhi che scrutavano dalle persiane, forse chiedevano chi fosse quel ragazzino. Aveva sollevato lo sguardo. Tanti edifici, tante famiglie, mentre lui era solo.
Due ragazzi più grandi gli venivano incontro. Lui li aveva guardati, poi aveva ancora una volta chinato il capo. E se l’avessero sbeffeggiato come facevano i suoi compagni? Continuò a camminare. Quando i ragazzi lo superarono, senza nemmeno sfiorarlo, tirò un sospiro di sollievo.
Svoltò la strada, dove c’era una piccola piazzetta e dopo molto tempo lo rivide.
Era un piccolo circo, fatto da un tendone dalle righe bianche e rosse tenuto da pali.
C’era stato da bambino al circo. Si ricordava ancora che aveva avuto paura dei leoni. Era troppo piccolo per poter assaporarne la grandezza. Gli erano rimasti impressi però i lustrini dei cavalli. Gli acrobati che si issavano sulla scaletta e poi dondolavano sul trapezio. Senza essere attaccati a nulla si lasciavano andare nel vuoto, in una sensazione che non dava spazio a ripensamenti. Un salto e poi… cercavano robuste braccia, che avrebbero dato sicurezza allo slancio.
Non si poteva ritornare indietro. Tutto era cronometrato. Aveva il tempo giusto.
Ora era là, tra il buio che oscurava il cammino e quel tendone colorato.
Era attratto da una scia di luci, di suoni che davano spessore alla sua scoperta, che attenuavano il senso di colpa per essersi lasciato alle spalle l’angoscia di sua madre.
Era arrivato. In cuor suo sapeva che il circo era la sua meta. Come se fosse già stato scritto. Un pensiero si era divincolato dalla testa. Aveva volteggiato un poco. Ecco che i piedi stanchi si erano appoggiati ad una corda che sosteneva i pali del circo.
“Doveva entrare!”. In una specie di dormiveglia si ripeteva che: “Doveva entrare!”.
Fece il giro del tendone, dove il buio aveva sconfitto il chiasso dell’entrata. Si fece piccolo. Si intrufolò strisciando sotto una piccola fessura della tela.
Il gioco era fatto. Ormai si trovava dentro. Tra famiglie con bambini chiassosi, nessuno lo notò.
Si mise accanto ad un padre ed ad una madre che avevano un bambino piccolo. Il padre lo teneva sulle ginocchia, gli indicava la pista, il girotondo dei colori. Il bambino rideva accarezzato dalla voce paterna. Si coccolava, dimenandosi in quell’abbraccio protettivo. In un rapporto profondo tra padre e figlio.
Mentre lui di suo padre aveva in mente solo critiche, parole acide e quel giorno anche lo schiaffo. Provava invidia per quella scena familiare. Lui non poteva condividere con nessuno l’entusiasmo, la gioia di essere al circo.
Si alzò il sipario in fondo ed entrò il presentatore con la giubba rossa.
Si da inizio alla magia. Si da inizio ad una storia. Le storie hanno un palcoscenico in cui vengono rappresentate. Si possono condire con l’emozione. Le storie possono essere trasfigurate dal momento, in cui le vivi.
Ora lui voleva che lo spettacolo si impossessasse di ogni suo pensiero. La mente volava per rendersi libera da una realtà che faceva troppo male.
Qui al circo scopriva che poteva essere truccata la realtà, senza essere ridicoli. Si potevano indossare vestiti sgargianti che brillavano, senza essere derisi.
Il pagliaccio si era impasticciato il viso con i colori. Faceva ridere con quella sua aria buffa, ma nonostante il cerone, il naso rosso, l’occhio aveva conservato una lacrima sospesa che luccicava.
Anche Marco si sentiva un clown. Aveva voglia di ridere, ma una ferita lì in fondo era emersa per poi sbattergli addosso una lacerazione che aveva sotterrato, suturato in ogni modo, ma che ora gli sembrava impossibile tenere più nascosta.
Il pagliaccio dalla parrucca gialla, dalla camicia rossa e pois bianchi ed i pantaloni larghi girava nella pista. Intervallava con i suoi siparietti i numeri del circo. La sua camminata era flemmatica. Si soffermava ad accarezzare le mani dei bambini delle prime file. Alcuni ridevano, altri avevano paura.
La volontà di portare ilarità andava a scontrarsi con il timore dell’ignoto. Chi e che cosa si stava nascondendo dietro quella maschera?
Il circo è un’altra vita. Il circo è un viaggio d’arte. Porta con sé la pinacoteca del movimento. Sempre diverso, sempre nuovo. Anche se è duro viverci dentro, sospende la realtà. E’ una manifestazione concreta della fantasia. Una favola vera.
Marco intuiva tutto questo. Trovava nel circo un espediente al malessere che si portava dentro.
Lì al circo avrebbe potuto mascherare la sua impotenza. Avrebbe potuto essere uno di loro. Se lo sentiva.
I due acrobati si erano tolti il mantello. Avevano ricevuto gli applausi ed adesso iniziavano il loro numero. Marco cercava di imprimere nella testa i movimenti.
Gli acrobati si tenevano per mano. La presa, che era una morsa dava sicurezza l’uno all’altro. L’esercizio era basato sull’unità degli intenti, sulla coesione dello sforzo. Solo un’energia sovrumana, venuta dal di fuori avrebbe potuto dividere quei corpi che si compenetravano, diventando un tutt’uno. Se ci fosse stato un errore avrebbe coinvolto entrambi.
I muscoli tesi nello sforzo, la tensione, tutto dava l’idea della forza, ma nello stesso tempo della leggerezza.
Senza peso, nelle tute azzurre, mettevano alla prova la gravità. Erano sospesi in un mondo differente. Erano gli uomini del futuro. Diventavano celesti forme. Dipinti tridimensionali su di una tela. Non avevano la freddezza del marmo, erano pulsanti in un’onda di concentrazione.
Avevano ripetuto l’esercizio chissà quante volte ed ora potevano con le menti essere altrove. Convinti che la grandezza dei loro movimenti stesse nel credere che al di sopra di ogni convinzione della fisica si dovessero superare i limiti delle sue leggi. Erano un mostro con più gambe, due teste. Un mostro che dava l’idea di perfezione.
Marco accettava tutto. Non si sarebbe stupito se avessero preso il volo, sbattendo le braccia, ritmando la musica tra note ed arti.
La gente rimaneva muta, attonita. Era in tensione con loro. Tratteneva il respiro. Quando arrivava l’inchino, quello era il segnale. Partiva allora l’applauso, la liberazione. Gli spettatori vivevano di un’eccitazione riflessa, pur rimanendo incollati alla sedia.
L’unione di chi fa e di chi aspetta. L’appagamento di una gioia forse effimera, forse passeggera, ma sincera: una comunione di sentimenti.
Finito il numero non si sapeva più dove fosse lo spettacolo. In mezzo alla pista, o in mezzo agli spettatori, che continuavano a battere le mani.
L’allegria e la riuscita di un’impresa avevano coinvolto tutti.
Ogni spettatore era ammaliato dal coraggio e nello stesso tempo aveva la consapevolezza della sua inferiorità, certo di non arrivare a livelli così estremi.
In una duplicazione di attimi felici si apriva il sipario ad una frazione di eternità.
Dalla bellezza di quei corpi si poteva credere di essere passati dalla energia all’etica. Il sussurro di Dio si era fatto sentire attraverso quei movimenti armoniosi.
Il silenzio imposto pretendeva la paralisi di ogni pensiero. L’apnea di ogni divagazione.
Tutto era lì in quel nucleo composto, racchiuso in quel tendone del circo.
Una mongolfiera attaccata esilmente al suolo. Una sfera di emozioni che volava al di là dei corpi, al di sopra delle nuvole.
Marco si sentiva pronto. Lui sapeva che avrebbe potuto essere un pagliaccio, essere un acrobata, essere qualsiasi artista, pur di rimanere lì al circo.
Le sue mani continuavano a battere. Avrebbe voluto che si replicasse la scena per poter ricevere di nuovo quel batticuore che gli provocava felicità.
Lo spettacolo continuava con il domatore dei leoni. Marco rinnovò la paura di quando era bambino. La frusta che batteva l’aria senza toccare la belva faceva sapere alle fauci spalancate che il domatore era il più forte. Lui non si sarebbe tirato indietro. Era nella gabbia con loro e voleva gridarlo a tutti di non temere, perché avrebbe sconfitto qualsiasi brivido, pur di non mostrarsi impavido. Un patto tra lui ed il leone. Era il domatore che aveva la parte principale, era il protagonista della scena. L’attenzione era catturata dai movimenti decisi di quell’uomo che metteva in pericolo la sua vita. Accarezzava le criniere, ma poi il suo sguardo era duro, fermo. Non lasciava spazio a disattenzioni o a disobbedienze. L’uomo risultava il vincitore. Aveva addomesticato la ferocia. Lui era diventato leone. In una lotta ripetuta per rimanere vivo.
C’è chi viene vissuto, si adagia, c’è chi invece la divora la sua vita, si mette in campo, trascina.
Marco non doveva lasciarsi trascinare, doveva vincerla la sua battaglia. Quegli uomini si erano messi al centro. Battendo i pugni sul petto avevano mostrato ciò che valevano. L’avevano dimostrato a se stessi, non tanto agli altri. Per una sorta di vittoria continua, che non poneva confini. Il gradino di una scala su cui arrampicarsi, sempre più su. Senza arrendersi.
E lui invece che cosa aveva fatto? Ad uno schiaffo era scappato. Non aveva gridato le sue ragioni.
Nella camera dei suoi quella mattina si era guardato allo specchio dell’armadio grande. Si era sentito un estraneo. I lineamenti marcati, la peluria sul viso. Avrebbe voluto essere diverso. Si era tolto la felpa. Aveva indossato la camicia da notte di sua madre. Aveva passato il rossetto avanti e indietro sulle labbra. Aveva sorriso allo specchio.
Suo padre l’aveva trovato così, con quello sguardo ebete che faceva le smorfie. Lo schiaffo era partito all’improvviso.
Ora in quella diversità ci nuotava dentro. Non aveva più voglia di scappare.
Lo spettacolo era finito. Dopo la parata di tutti gli artisti, il battimano continuo degli spettatori aveva stabilito la chiusura della fantasia. Le luci a poco, a poco si erano spente. Marco era ancora lì, seduto sulla panca a capacitarsi se effettivamente dovesse credere che tutta quella frenesia che si era impossessata della sua mente, dovesse per forza finire. Era un sogno che non si sarebbe rappresentato un’altra volta.
Si alzò piano, rimescolando nell’animo sensazioni scomposte. Era ritornata la paura, ma lui era convinto che non sarebbe ritornato indietro. Annusava in ogni angolo l’odore del circo. Come un cane aveva bisogno di sentire l’odore di qualcosa che gli era diventato familiare.
Nei camper gli artisti si spogliavano della loro gloria. La mettevano da parte per domani. Dormivano contenti perché sapevano che il domani sarebbe arrivato. Marco cosa aveva nelle tasche? Una gomma da masticare, venti centesimi di solitudine. Che ci poteva fare?
Andò, senza farsi vedere, verso l’angolo in cui si trovavano gli animali. Si nascose tra le balle di fieno. Si addormentò, piangendo. Con il desiderio che magari qualcuno potesse anche scoprirlo.
Un uomo grosso lo trovò la mattina. Lo scrollò. Lo prese per un braccio. Gli chiese chi fosse. Lui ancora mezzo addormentato, rispose semplicemente: “Sono Marco.”.
Quando si rese effettivamente dove fosse, tentò di divincolarsi dalla stretta. Guardando gli occhi tristi di quell’uomo, ebbe l’impressione di averlo già visto, ma non si ricordava dove.
“Che ci fai qui?”. L’uomo gli chiese.
Marco si calmò. “Sono venuto a vedere lo spettacolo del circo e mi sono addormentato.”.
L’uomo sorrise e in quel sorriso Marco riconobbe il pagliaccio.
Marco prese il coraggio. “Tu sei il pagliaccio, vero? Sei stato bravo. Mi hai fatto ridere. Mi insegni a truccarmi?”.
Il pagliaccio rise di gusto, poi ridiventò serio. “I tuoi lo sanno che sei qui?”.
Marco fece di no con la testa, ma poi ricominciò: “Mi insegni?”.
“Non c’è tempo. Dobbiamo partire.”.
“Vengo con voi.”. Sussurrò. La frase rimase là tra le labbra, quasi non volesse farsi sentire.
Il pagliaccio lo portò verso il suo camper, sempre tenendolo per un braccio. Oltrepassarono i leoni, ma Marco non se ne accorse. La sua vista era stata attratta da quel tendone dalle righe bianche e rosse che si era afflosciato, sgonfiato ed ora stava steso a terra.
“Perché l’avete ucciso?”.
“Chi è stato ucciso?”.
“Il circo.”.
Il pagliaccio rise ancora. In fondo gli era simpatico quel ragazzino.
“Domani in un’altra città il circo rivivrà ancora. Siamo noi che gli doniamo la vita, portando in giro la fantasia. Le sensazioni che hai provato, rivivile fino in fondo, perché così noi non potremo mai morire. Ricordati che per vivere intensamente, devi sentirti sempre al centro di una pista.”
Il Pagliaccio lo fece accomodare nel camper. Gli diede delle fette biscottare con del latte. E quando finì di mangiare, gli passò il suo cellulare. “Penso che devi telefonare a qualcuno.”.
Telefonò ai suoi. “Sto bene. Sono al circo.”. Farfugliò a bassa voce. Sua madre rispose con un grande sospiro.
Intanto nel circo si era sparsa la notizia del ragazzino. L’amazzone fu la prima ad entrare nel camper. Portò una coperta e lo accarezzò. L’acrobata gli disse che aveva il fisico giusto per diventare come lui e che, dopo aver completato gli studi, l’avrebbe aiutato a fare un bel numero.
Tanta gente, perfino il presentatore, che era il proprietario del circo, gli stavano attorno. Marco era contento di avere tutte quelle manifestazioni di affetto.
Quando l’auto arrivò, Marco era lì nel grande piazzale, attorniato da quelle brave persone. Suo padre scese per primo. Sua madre che era dietro, si mise a correre. “Ci hai fatto stare in pensiero!”. Lo strinse tra le braccia. Lui guardò suo padre, che rimase in silenzio.
Marco salutò tutti. Si ripeteva continuamente le frasi del pagliaccio. Erano l’unica via di salvezza, perché il circo e la sua voglia di riscatto non potessero morire.