In un vecchio articolo lo psicologo Ellenberger paragonava l’ospedale psichiatrico allo zoo. In entrambe le strutture gli esseri umani, trattati a docce fredde e a camicie di forza, e gli animali confinati in spazi angusti e inospitali finivano per impazzire definitivamente. Questa diagnosi, che purtroppo corrisponde a verità, ha determinato, nel corso del tempo, una crescente sensibilità che ha reso i manicomi e gli zoo un po’ meno devastanti per i loro ospiti e si è perfino tentato di abolirli.
Lascio stare la questione degli ospedali psichiatrici per ricordare come, una ventina di anni fa, poco più poco meno, vennero elaborate e proposte delle leggi a tutela del benessere degli animali, e molte strutture che li ospitavano in modo precario furono giustamente smantellate.
Certo si commisero dei fatali errori, in forza dei quali gli animali si trovarono spesso in gravi difficoltà. Per esempio ai Giardini Margherita di Bologna viveva da tempo un leone, di nome Reno, ospite di una gabbia piuttosto angusta che attirava folle di bambini. Si decise che Reno doveva essere liberato e fu inviato in un parco naturale che accoglieva altri individui della sua specie. Ahimè lo straniero, precipitato in quel parco come una meteora, venne fatto a pezzi dai legittimi inquilini che dovettero considerarlo un intollerabile rompi scatole. Il rinoceronte di un minuscolo zoo che non voglio ricordare fu del pari, secondo gli animalisti, rimesso in libertà, e cioè inviato in uno zoo iugoslavo dove, nel corso della guerra, fu messo allo spiedo dai cittadini affamati.
Riconosco le buone intenzioni di chi voleva liberare questi due poveri prigionieri, ma di buone intenzioni, come si sa, è lastricata la via dell’inferno. Sono convinto che gli zoo, nella stragrande maggioranza dei casi, siano l’equivalente dei campi di concentramento nazisti, e che, per reclamare il diritto di esistenza, dovrebbero essere come il celebre zoo di San Diego in California, dove gli animali hanno a disposizione degli ampi spazi e delle strutture capaci di ricoverarli nella maniera migliore. Però non posso dimenticare che la mia vocazione di naturalista e il mio amore per gli animali è nato proprio frequentando, da bambino, quello che oggi si chiama il bioparco di Roma.
Credo di non essere il solo che potrebbe fare questa un po’ spudorata confessione. Nutro così nel mio cuore qualche pensiero che gli animalisti radicali giudicheranno perverso, e cioè che ai bambini che vivono in città non bastano i video scientifici della televisione per evocare in loro quell’emozione fondamentale, direi primordiale, che si prova fissando negli occhi, anche attraverso le sbarre, una tigre in carne e ossa. Si può così congetturare che questi poveri animali prigionieri siano lì, in quelle gabbie e al di là di quei fossati, per dare testimonianza di quelli che vivono nei territori d’origine e che è necessario salvaguardare.
Se è vero che lontan dagli occhi lontan dal cuore, si impara ad amare gli elefanti cominciando dall’area conclusa di un zoo. I sogni più belli sono quelli che si possono fare ad occhi aperti.
Giorgio Celli
La Stampa 6.1.2011