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Porche risate: maiali in pista

Jean Albert Hoppe col suo maiale artista (foto Silvano Bergamaschi)

Per il porco, da noi, non c’è scelta: o ci fa prosciutti o ci fa ridere. Certo, se dipendesse da lui, sceglierebbe sempre la seconda soluzione. Ed è su questa che mi piace spendere qualche riga, anche perché senza il suino la storia del circo avrebbe avuto un sapore un po’ diverso.
L’animale, nel suo stato originario di cinghiale, è un tipo con cui c’è poco da ridere. Temprato alla vita di selva, sospettoso di ogni cader di foglia, zanne che fanno male. E male può fare anche il maiale suo discendente, oggi, se stimolato a una reazione aggressiva. Ho nella memoria una ragazza morsa da una scrofa che cercava di recuperare un volto accettabile allo specchio affidandosi alle mani di un maestro della chirurgia plastica, ed è immagine che non si cancella.
Ma al circo il suo ruolo è quello del comico.
Ho mucchi di libri, di fotografie, di ritagli che parlano del suino e ovunque vedo che è chiamato a far ridere. Pagliaccio al maiale, questa è la ricetta vincente. Il nostro clown Giacomino, che tanto successo trovò in Russia nei primi decenni del 1900, lo trovò grazie anche alla presenza accanto a lui di un suino di nome Guglielmo, che marciava con andatura marziale e sparava il cannone e faceva molto ridere gli spettatori perchè pareva, e in realtà era, la caricatura dell’omonimo imperatore germanico. Ma il maiale è multiuso, è spesso entrato anche nel varietà.
Mentre scrivo, ho sotto gli occhi il libro Il Salone Margherita e la Belle Epoque, del collega e amico Vittorio Paliotti, che a pag. 208 reca la riproduzione di un manifesto, con l’etichetta “Direttore artistico O. Capaccioli”, dove si vede una scrofa che traina un carrettino con su una donnina che, vezzosa, fa svettare la gamba con giarrettiera.

Hoppe insieme alla moglie

Mi sono fatto una cultura sul tema avendo incontrato al Circo Americano, nel 1974, un artista tedesco in grado di parlarmi del maiale sia come animale sia come strumento d’arte. Mi riferisco a Jean Albert Hoppe, assai rinomato nel suo mestiere.
Riporto qui le annotazioni scritte allora sul taccuino. “Hoppe, come altri ammaestratori di maiali, entra in pista con una truccatura da clown, anche se non è un clown, per sottolineare il sapore umoristico del suo numero. Entra portando gli animali su un’auto anch’essa da clown, colorata e bizzarra. Poi li invita a scendere e gli fa fare saluti, marce, inversioni di marcia e altre cose. Il numero è stato preparato in 16 mesi”.
La chiacchierata aveva avuto inizio in carovana, presente anche un barboncino che – ad onta della straordinaria vocazione della razza agli esercizi circensi – in casa Hoppe aveva l’unico compito di ricevere le coccole della signora Hilse. Poi continuò nel carro-gabbia e fu tutt’altra atmosfera.
Emilio, Oscar, Willie e Enzo, bestioni di razza ungherese del peso di 3-4 quintali ciascuno, giacevano sulla paglia e parevano immersi nel sonno più profondo. Hoppe passava le mani sui loro pulitissimi mantelli setosi, chiazzati di bianco e di nero, e non fece nessuna opposizione quando anch’io allungai la mano. Dopo un poco, però, con un mefistofelico sorriso quasi a pregustare la battuta, mi disse: “Se lei fosse entrato qui senza di me, sarebbe già stato sbranato”.
Obiettai, allontanando la mano dai maiali con gesto che mi sforzai fosse lento e dignitoso, che gli occhi chiusi mi avevano tratto in inganno. Ma lui insisteva con quel suo sorriso divertito.
“Oh sì, certo, occhi chiusi, dormire. Sono così tutto il giorno. Ma da quando lei è entrato con me, non si sono persi nè un gesto nè una sillaba. Vedono tutto, capiscono tutto”.
Poi mi fece l’elenco delle calunnie di cui i maiali sono vittime.

Hoppe col suo numero di animali da fattoria

“Non sono puliti? E chi lo dice? Qui, sulla lettiera dove dormono, non sporcano mai. Pipì e pupù là, in quell’altro angolo, sempre là. Se questa non è pulizia…”
“Non si affezionano all’uomo? E chi lo dice? Dopo ogni esibizione, vengono a sfregarsi contro di me per avere la carezza e farsi dire bravi bravi. Se questo non è affetto…”
“Non sono intelligenti? E chi lo dice? Sono molto intelligenti e possono fare molte cose. L’uomo però deve capirli…”
E lui era uomo che li capiva come artista e come studioso del comportamento animale. Aveva studiato veterinaria e ben sapeva quanto potesse essere pericoloso destreggiarsi con quei giocattoli da quattro quintali.
La sua amicizia coi suini si esaltava al momento del numero, applaudissimo sulle piste di tutta Europa. I 16 mesi occorsi per prepararlo – mi spiegò – si sarebbero potuti accorciare di molto se non fosse stato per quelle zuccone di Mariuccia e Agata. Che non erano scrofe e non erano donne, ma oche che facevano irruzione nel numero con un allegro finale. Nel circo godono ottima fama anche le oche – indimenticabili quelle del clown Pinta – ma rispetto ai maiali, parola di Hoppe, hanno una marcia in meno. Anche perchè sono imprevedibili, mi spiegò. Può accadere, e infatti a lui con un suo esemplare era accaduto, che un bel giorno decidano d’improvviso di non fare più quello che hanno fatto fino a quel momento, e non c’è verso di fargli cambiare idea.

Konrad Lorenz

Neppure le oche tuttavia – aggiunse Hoppe – avevano mancato di dargli soddisfazione. Anzi, gli avevano meritato i complimenti della persona in assoluto più autorevole in fatto di oche: il premio Nobel Konrad Lorenz, autore di L’anello di re Salomone e altre indimenticabili letture. Gli disse che non avrebbe mai pensato di vedere le oche fare certe cose al circo, e un elogio così, detto da Lorenz, è una laurea honoris causa.
Attingo da La piazza universale di tutte le professioni del mondo, scritta da Tomaso Garzoni nel 1500, un passo in cui si menziona Plinio, che in un capitolo parla di animali addomesticati: “Plinio nel libro decimo al capitolo vigesimosecondo narra di un’oca domestica che mai si spiccava da Lacide filosofo: anzi, e nel bagno e in pubblico, e di dì e di notte voleva seguitarlo, e quasi fosse impazzita del suo amore”.
E non è, questa, la famosa storia dell’ochetta Martina, che fin dalla sua prima uscita dall’uovo vide la faccia di un signore con la barba di nome Konrad Lorenz, e decise che quella era la sua mamma da seguire giorno e notte, e così diede origine alla famosa teoria dell’Imprinting che rivoluzionò il nostro modo di guardare gli animali?
Gli etologi storcono la faccia quando glielo dici, ma qualche sana lettura di circo ogni tanto farebbe bene anche a loro.
Ruggero Leonardi

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