di Maria Vittoria Vittori
Piccole lune per due clown
S’intitola così la creazione di Franco Scaldati, quarant’anni di teatro alle spalle, andata in scena in questa stagione al Teatro Biondo di Palermo. A spartirsi il palco, Titì e Vincenzina, in una sorta di viaggio dialogato, tra l’onirico e il comico, all’interno dell’universo femminile. Rappresentano la declinazione più lieve, ironica, giocosa delle due figure che sono state definite autentiche “maschere scaldatiane” ovvero Totò e Vice’, personaggi ispirati a creature reali, secondo l’autore e “clown metafisici e lunari, alla maniera di Totò e Buster Keaton”, secondo il critico teatrale Matteo Palumbo (nel volume collettaneo Totò e Vice’ di Franco Scaldati a cura di Antonella di Salvo e Valentina Valentini, Rubbettino editore 2003).
Anche Titì e Vincenzina possono richiamare i clown?
I clown sono sempre esistiti nel teatro, prima ancora che nel circo. Nel teatro antico, ma anche in Shakespeare e nel teatro spagnolo c’erano gli intermezzi comici. Ecco, quei due personaggi richiamano l’atmosfera degli intermezzi comici, solo che hanno preso il primo piano, sono venuti alla ribalta.
Come definirebbe la comicità?
La comicità non è un genere. Non si sta parlando di quei comici di oggi che non fanno ridere nessuno e che non hanno ragione d’esistere. La comicità vera è la tragedia capovolta. E i primi comici sono gli zanni della Commedia dell’arte. Da loro derivano i clown. Il circo li ha ridefiniti, ma sono partiti dal teatro e al teatro ritornano, nei loro giochi di coppia.
Qual è il filo rosso che unisce il teatro, il circo e la Commedia dell’arte?
Tutto è incentrato sull’essere attore, ma non solo sulla sua fisicità. Il corpo esiste perché è mosso dall’anima o dallo spirito, o da ciò che non vediamo. Intelligenza ed emozioni, qualcosa di più profondo e irridente, e quindi qualcosa di sacro.
Quale significato assume la sacralità in questo contesto?
Sto rileggendo alcuni saggi su Giufà, personaggio popolare della memoria siciliana e della memoria araba. Questa dualità, questo essere una cosa e l’altra, è sacralità. L’uomo nella sua interezza, nella sua complessità, nelle sue contraddizioni (furbo e sciocco, vittima e carnefice) credo che abbia qualcosa di sacro. Non si irrigidisce in un’idea di sé o in un’idea che la comunità impone, ma riesce ad essere tutto.
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Il bambino che viveva vicino al tendone
Quando il circo arriva in città genera per un bambino (ma non solo per lui) una speciale occasione da cogliere e, chissà perché, ho sempre accostato questa opportunità gioiosa all’arrivo di un nuovo attraente romanzo nella mia quotidianità. E questa percezione s’intensifica e diventa elettrizzante quando, inoltrandomi nelle pagine di un romanzo, mi trovo a respirare un’aria particolare, eppure in qualche modo misteriosamente familiare e mi aspetto – anzi lo sento con tutte le mie fibre – che anche lì, in quella storia che si sta dipanando davanti al mio sguardo impaziente, sta per arrivare il circo. L’ultima volta, mi è capitato pochi giorni fa: dalla redazione del Mattino mi chiedono di intervistare Mircea Cărtărescu, poeta e scrittore romeno di passaggio a Roma prima di recarsi al Salone Internazionale del Libro di Torino, dove sarebbe stato uno dei protagonisti (la Romania, insieme alla Spagna, era uno dei paesi ospiti di questa edizione). Non lo conoscevo e dunque prima dell’intervista inizio a leggere i suoi racconti, compresi nel volume Nostalgia (1993; Voland 2003). Non parlano affatto di circo; ma qualcosa – in alcune situazioni, in alcune analogie dal gusto insolito, in una particolare qualità di scrittura, lucidamente realistica eppure in qualche modo visionaria – fa presagire l’arrivo del circo. Che finalmente arriva nel racconto Rem, incentrato sulle scorribande avventurose e immaginose di un gruppo di bambine nella trasfigurata periferia di Bucarest. Il circo arriva attraverso il racconto di Egor, una sorta di gigante filiforme e malinconico, nipote del mitico “signor Firelli” che, presentato come l’uomo più alto del mondo, magro come un fachiro e completamente tappezzato da tatuaggi, si esibiva al circo Vittorio “uno dei tre grandi circhi ambulanti che percorrevano allora il paese”. Compare anche, tramite una citazione, il Circo Sidoli (fondato nel 1855 dall’impresario italiano Teodoro Sidoli) che si distingueva “per il suo tendone immenso, fatto di strisce di seta bianco-azzurre con in cima delle bandierine simili a foglie di limoni”. E di nuovo compare nel racconto intitolato Zaraza che fa parte della raccolta Perché amiamo le donne (2004; Voland 2008) e sempre attraverso l’inconfondibile tendone azzurrino a strisce bianche. In Abbacinante, primo volume della trilogia Orbitor (2000; Voland 2003), c’è un’intera tragicomica sezione dedicata alla missione speciale di un agente della Securitate, impegnato nella ricerca dei possibili messaggi in codice emessi dagli artisti di un circo itinerante. E non solo: nella topografia di Bucarest, accuratamente descritta attraverso i percorsi dei protagonisti di tutte le storie, più volte ricorre come luogo deputato all’avventura il Viale del Circo. È evidente che non si tratta di semplici coincidenze, ma quando ne parlo con Cărtărescu lui si mostra lievemente sorpreso. Sembra che ben pochi intervistatori gli abbiano rivolto domande specifiche sul circo, ma non ha alcuna difficoltà a raccontare: “Da bambino ho vissuto accanto al circo di Bucarest; la strada in cui abitavo era vicinissima al Viale del Circo. Ero dunque vicino di casa degli artisti circensi, frequentavo le abitazioni di acrobati, trapezisti e ballerine ed ero amico dei loro figli. Tutto ciò che è diverso dalla normalità ha in sé qualcosa di particolarmente espressivo. Tutto ciò che è diverso ci affascina e diventa implicitamente mito. Nella mia mitologia personale, che si è costituita in base alle letture e alle esperienze personali, sono entrate anche le creature del circo”. E quando gli chiedo di precisare ulteriormente gli elementi di questa fascinazione, non ha dubbi: “Nel secondo volume della mia trilogia, che non è stato ancora tradotto in italiano, c’è un grande e importante capitolo dedicato al circo. Per me, accanto all’operetta, continua ad essere lo spettacolo più affascinante perché è più arte che vita. E in molti casi, la vita e il circo si combinano variamente nell’esistenza di ognuno di noi”.