di Dario Duranti
Dario Duranti riassume alcuni dei fatti salienti del periodo della Seconda guerra mondiale riguardanti due tra le principali dinastie di circo italiane, gli Orfei e i Togni. Rievocando le memorie dei diretti protagonisti, raccolte in diversi libri e manuali, ripercorre gli aneddoti e gli eventi storici che le hanno coinvolte, tra fascisti, partigiani e bombardamenti.
Il Circo Nazionale Togni nel 1938. Foto tratta da
La Grande Cavalcata di Giancarlo Pretini (Trapezio, 1984).
La vita per il circo italiano in tempo di guerra è stata durissima ed è peggiorata mese dopo mese. Liana Orfei, classe 1937, pur se piccola, ha vissuto quel periodo sulla propria pelle e l’ha raccontata molto bene, sia nel primo volume La grande casa chiamata circo (La Sorgente, 1977) che nel recente Romanzo di vita vera. La Regina del Circo edito nel 2020 per i tipi di Baldini e Castoldi. Attingendo ai propri ricordi personali e a ciò che i genitori le hanno raccontato, Liana scrive rispetto al periodo bellico: “La vita si fece sempre più dura, era sempre più difficile ottenere i permessi per lavorare e trovare aree per montare il piccolo circo. Alcune autorità, come il Podestà, avevano la facoltà di agevolare a loro piacimento alcune procedure comunali. Bisognava essere iscritti al partito. Ma non tutti capivano la politica, perciò, più per ignoranza che per idealismi, in molti non approfittarono di questi minimi aiuti, rinunciando così anche al loro più elementare diritto alla sopravvivenza. Quando poi gli alleati tedeschi requisirono tutte le attrezzature del piccolo circo adducendo a ragione la necessità di materiali isolanti per il fronte di carne per le truppe per la famiglia fu la catastrofe”.
Per sopravvivere la famiglia Orfei dovette dividersi in piccoli nuclei che si sparpagliarono in vari paesi dell’Emilia. Paesi amici che ben conoscevano gli Orfei dei quali avevano ospitato e apprezzato gli spettacoli. Orlando partì per andare al fronte, lasciando la famiglia nei pressi di Vignola in provincia di Modena, dove si trovavano anche il padre Paolino con una figlia. L’altra figlia Irma sfollò a Portomaggiore (Ferrara). Anche il nucleo di Paride con la moglie Alba e i figli Nando e Liana si fermò inizialmente a Vignola, dove venne parcheggiata la carovana in un angolo riparato di una delle piazze del paese. Ma per quanto riparato, quel punto risultava comunque molto esposto e soprattutto rischioso a causa dei bombardamenti americani. La loro posizione distava parecchio dal rifugio più vicino e non sempre riuscivano a raggiungerlo, per cui spesso erano costretti a trovare un nascondiglio nella cantina di un palazzo adiacente alla loro carovana dove trascorrevano le notti in cui risuonava l’allarme. La carovana, poi, d’inverno soprattutto, non era molto confortevole: era l’unica rimasta, fatta di legno, ma non riparava
neanche dal vento per le fessure larghe due dita tra le assi. A tutto questo si aggiunga che Alba in quei mesi del 1944 era in attesa del terzo figlio, Rinaldo, che sarebbe venuto alla luce proprio in un giorno di bombardamenti. Il parto già di per sé delicato fu notevolmente compromesso dalla situazione esterna; il personale medico, per quanto premuroso, aveva fretta di lasciare l’ospedale e anche la povera Alba, nonostante il dolore e le conseguenze del travaglio, si fece dimettere appena possibile, pur di tornare dalla sua famiglia e ripararsi altrove.
Vignola, infatti, si stava rivelando troppo pericolosa, così Paride, preso un cavallo in affitto, spostò la carovana e la sua famiglia sulla collina prospicente, arrivando a Marano sul Panaro, località più defilata, rurale, tranquilla e isolata. Qui trovarono ospitalità da Luigiot e Pia Ori, anziani mezzadri che lavoravano la terra per conto dei padroni. Alba e Paride in cambio della preziosa ospitalità ricevuta si adoperarono come contadini aiutandoli in tutto quello che c’era da fare, tra casa e campagna. In cambio potevano finalmente lasciare temporaneamente la vecchia carovana e disporre di una stanzetta sopra il granaio dove ripararsi dal freddo e dalla neve d’inverno. Ricevevano inoltre latte e riso (quando c’era) per sfamare sé stessi e la piccola famigliola. Pia e Luigiot avevano i figli in guerra e riversavano il loro amore sugli ospiti. Tra i coniugi Ori e gli Orfei si instaurò un rapporto molto saldo che durò anche dopo la fine del conflitto. Per raggranellare un po’ di soldi, Paride svolgeva altri lavoretti e se non trovava nulla prendeva la tromba e si recava alle fiere del bestiame. Talvolta fondeva il piombo per ricavare dei pallini con cui caricava una carabina e scendeva al paese offrendo una sorta di primordiale tiro al bersaglio, dove i pochi vecchi ancora con la voglia di gareggiare si sfidavano nel colpire i gessetti che lui aveva costruito.
In alcuni periodi Paride, che era clown, musicista e acrobata, si esibiva come pagliaccio per far divertire i piccoli e proponendo piccoli spettacoli. Altre volte Alba, Paride, Paolino e la moglie di Orlando si aggregavano alla famiglia Rizzoli, famosi burattinai, dando vita a esibizioni nelle fattorie e nei comuni della zona. Non erano propriamente spettacoli di circo, ma in quel periodo così fosco erano apprezzati e si rivelavano l’occasione per mettere da parte qualche soldo. Tuttavia, ogni escursione in paese poteva rivelarsi molto rischiosa sia per le incursioni di Pippo, l’aereo americano così ribattezzato in tutta Italia, la cui mitragliatrice bersagliava qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, sia per i rastrellamenti dei tedeschi che avrebbero potuto considerare Paride un disertore o un partigiano. Non era normale, infatti, che un uomo della sua età non fosse al fronte a combattere, ma a causa di un’ernia Paride non era ritenuto idoneo e anche se non possedeva un documento che lo certificasse era esonerato dall’esercito. Ma una notte i tedeschi bussarono alla loro cascina e quando lo videro pretesero spiegazioni che egli non seppe fornire, per via della lingua. Si salvò da quella terribile situazione per la simpatia che i militari nazisti avevano per l’arte in ogni sua forma. I tedeschi graziarono Paride in cambio di una esibizione di abilità acrobatiche e musicali che li colpì al punto tale che nei giorni successivi tornarono ancora al casolare per chiedere altri saggi di bravura.
Qualche giorno dopo a minacciare l’equilibrio nella cascina di Marano furono i partigiani che avevano sentito dell’acrobata che si esibiva per il nemico. La cosa fu molto mal vista, soprattutto dagli anziani contadini che ospitavano gli Orfei; nuovamente Paride e i suoi inquilini si trovarono costretti a dover giustificare la propria condotta. Se il fronte era un contesto rischioso, evidentemente anche rimanere a casa rintanati non era privo di pericoli. La guerra è guerra, per i militari e per i civili. Allora come oggi.
Dopo l’8 settembre, quando l’esercito italiano si sfaldò, Orlando tornò dalla famiglia e per mettere da parte qualche soldo cominciò con Paride a trasportare sabbia con un vecchio camion, un BLR di fabbricazione italiana, di quelli con le gomme piene e le catene laterali, non avendo ancora la trasmissione. Questa attività proseguì fino al ’45, quando i tedeschi requisirono anche questo vecchio mezzo durante la loro ritirata. Poi, finalmente, come racconta ancora Liana: “Una mattina i bambini furono svegliati da grida di gioia, sentivano gli adulti urlare felici per la prima volta nella loro vita. Allarmati uscirono in cortile e li videro che si abbracciavano piangendo, bofonchiando frasi sconnesse: “È finita! Alba è finita!” e poi abbracciavano i contadini vicini”. La guerra era terminata.
1949 circa. Liana Nando e Rinaldo Orfei
Ma la gioia improvvisa si tramutò quasi subito in angoscia per mamma Alba, quando ricordò di aver venduto gli pneumatici della carovana nei giorni più duri dello sfollamento per raggranellare qualche soldo per tirare avanti. Senza pneumatici la carovana non sarebbe potuta tornare a viaggiare. Ma Alba non si diede per vinta e con tutta la sua determinazione e caparbietà corse in paese dalla persona che glieli aveva acquistati pretendendo la restituzione delle gomme (e dunque anche del denaro che aveva preso in cambio).
Inizialmente si scontrò con la reazione infastidita dell’acquirente, un trasportatore per il quale quelle gomme erano altrettanto indispensabili. Fu la forza della disperazione a darle il coraggio per quell’impresa al termine della quale tornò a casa, dopo averlo supplicato, con le ruote senza le quali non avrebbe mai potuto riprendere a viaggiare in quello stato di necessità. La fine della guerra apriva una fase altrettanto complessa. Tutti i circensi, infatti, si trovavano senza automezzi, senza strutture, senza animali. Il conflitto non li aveva lasciati che con il loro talento. Bisognava ripartire da zero e senza soldi era praticamente impossibile riaprire il circo. L’inventiva e una buona dose di fortuna vennero in soccorso a Orlando Orfei: nascosti tra la vegetazione del letto del Panaro, rinvenne dei vecchi automezzi tedeschi abbandonati ed esposti alle intemperie. Nonostante la contrarietà del padre Paolino e i timori del fratello Paride (spaventato dall’idea di impossessarsi di beni che appartenevano al nemico), Orlando e la cognata Alba misero in sesto due mezzi coi quali nei mesi successivi avrebbero lavorato come trasportatori. Inoltre, con i libretti dei camion che i tedeschi avevano sequestrato, andavano a prendere la benzina che spettava loro, per rivenderla a chi aveva ancora i mezzi ma non carburante sufficiente per farli camminare. Era una pratica vietata dalle autorità, ma lo stato di necessità induceva ad affrontare questi rischi per raggiungere l’obiettivo: la sopravvivenza e la ripresa dell’attività del circo. La sera, con Paride, andavano a esibirsi in piccole sale: Nando in veste di giocoliere, Liana sua assistente, Paride e Alba in duetti cantati, Orlando come mago e così via. Erano sale inadatte allo spettacolo, soprattutto alle evoluzioni acrobatiche che richiedevano spazio e altezza, ma in quel momento non c’era di meglio. Orlando escogitò dunque una nuova idea: usare vecchie sacche da sbarco impermeabili degli americani e i teloni dei camion per realizzare un primordiale tendone. Le donne si misero all’opera cucendo i “quarti” e dando alla luce quello che chiamarono “il teatrino”: era quadrato, impermeabilizzato, aveva un palco e le sedie a terra. Fu un primo importante passo avanti che permise di ripartire, ma l’entusiasmo durò poco: col caldo e il sole battente, il catrame che impermeabilizzava quelle tele emetteva un odore forte, penetrante, tossico che faceva star male il pubblico. Occorreva trovare un’altra soluzione. Venne in soccorso uno chapiteau che la famiglia Carbonari aveva conservato durante la guerra in un magazzino del mantovano. Era una tenda di 30 metri che teneva circa 600-700 posti. Con quel tendone (pagato a rate 160.000 lire, faticosamente messe insieme con quei trasporti escogitati da Orlando e con soldi messi a disposizione dalla famiglia di Alba) gli Orfei ricominciarono l’attività circense con uno spettacolo che comprendeva anche i numeri degli stessi Carbonari. Il debutto avvenne a Modena dove registrarono “piene” per un mese intero, cosa che si ripeté anche il mese successivo nella piazza di Reggio Emilia. Da lì in poi la ripresa definitiva dell’attività in proprio, l’acquisto di uno chapiteau nuovo, dei primi mezzi e successivamente degli animali. Rinasceva il Circo Orfei…
1941, il Circo Nazionale Togni
Diametralmente opposta l’esperienza del Circo Togni, che risentì meno degli effetti della guerra. Forse per via di un decreto regio del Re Vittorio Emanuele III che faceva sì che potessero viaggiare con l’insegna Circo Nazionale Togni, agevolandoli nel continuare a lavorare anche durante il periodo bellico. Questo complesso alternava periodi in cui effettuava spettacoli sotto chapiteau ad altri, soprattutto invernali, in cui si esibivano nei teatri; allora erano frequenti i politeami ossia teatri che per la loro configurazione variabile erano destinati alla rappresentazione di spettacoli di diverso genere: cinematografo, rivista, prosa, lirica e circo. In alcuni casi, nei teatri a struttura circolare, veniva rimossa la platea centrale di sedie e sostituita con la pista.
Nel 1941, mentre il Circo Nazionale Togni si esibiva al Politeama Giacosa di Napoli, fece il suo debutto in pista all’età di soli 8 anni Enis Togni. Si narra che tra il pubblico vi fosse il generale nazista Erwin Rommel che raggiunse il piccolo Enis in camerino per congratularsi. Nonostante gli spettacoli continuassero e il Circo Togni riuscisse a esibirsi in grandi città, molto materiale fu requisito: “I cavalli, insieme agli autocarri e ai trattori, presero la via della Germania e furono sostituiti con buoi e carri, ma anche quelli non avevano la possibilità di essere difesi dalla rapacità militaresca dei nazisti. – scrive Enrico Bassano nel volume biografico Darix tra le belve (La Stampa, 1975) – Difficilissimo, spesso impossibile il mantenimento degli animali, soprattutto di quelli che il nemico non poteva requisire, ma per i quali necessitavano di carne, foraggio speciale, pane ed altro ancora. Per i leoni si dissotterravano animali uccisi (i cavalli colpiti da bombe e mitragliamenti), ma in una certa epoca, belve comprese, furono costretti a un digiuno quasi totale di circa una settimana e quanto poteva venir offerto per il loro sostentamento o non bastava o veniva rifiutato perché inadatto per la loro alimentazione”.
Il Circo collaborava con il Partito Fascista che sostanzialmente aveva assunto la gestione del complesso attraverso l’OND ossia l’Opera Nazionale del Dopolavoro, alle dirette dipendenze del capo del governo, col compito di occuparsi del tempo libero dei lavoratori. I vertici del Partito Fascista riuscivano tramite l’OND a tenere sotto controllo in maniera abbastanza capillare l’umore della popolazione e a contrastare eventuali voci di dissenso delle opposizioni al regime. Su un annuncio pubblicato sul quotidiano La Stampa di Torino del 7 maggio 1942 si legge: “Iniziative del Dopolavoro. Rappresentazioni torinesi del Circo Nazionale Togni. Allo scopo di offrire divertimenti ed originali spettacoli ai lavoratori, ai bambini e ai militari, e per ridare vigore e lustro ad un’originale forma d’arte prettamente italiana, la Segreteria generale dell’O.N.D. ha assunto la gestione del noto Circo Nazionale Togni e sta attuando con esso un giro di rappresentazioni In Italia”. Effettivamente, attraverso l’OND il Circo Nazionale Togni si produsse in una serie di spettacoli in tutto il paese. A maggio 1942 è a Torino per circa un mese, poi un altro mese a Milano, in novembre è a Roma. Sulla Gazzetta Fascista, in occasione della tappa nella capitale, si annunciano anche incontri di boxe, sotto il tendone del Circo installato a Porta San Giovanni.
In una richiesta di autorizzazione alla concessione dell’area rivolta al Podestà di Cremona nel luglio del 1943, riportata integralmente nel volume Storia del Circo di Alessandro Serena (Mondadori, 2008), Ercole Togni ci tiene a sottolineare: “Credo non sia necessario darvi spiegazioni sull’importanza e la serietà del Circo Nazionale essendo stato per ben 22 mesi sotto l’egida diretta dell’Opera Nazionale Dopolavoro e anche ora con l’ordine del Comando Generale Gioventù Italiana del Littorio – Roma – il Circo Nazionale dà spettacoli propagandistici gratuiti alla Gioventù italiana del Littorio di ogni città che lo ospita (…)”.
Se da un lato, dunque, il Circo Togni collaborava col fascismo, dall’altro Ercole Togni (il maggiore dei fratelli, quello più caparbio e determinato, responsabile della direzione del complesso) lavorava in segreto per i partigiani, usando la mobilità del circo per salvare ebrei, comunisti e antifascisti. Aveva, infatti, chiesto di assumere molti artisti che si rivolgevano a lui terrorizzati di dover partire per la guerra in Russia. Riuscì a farne stare a casa molti che gli sono stati riconoscenti per questo. Dagli ultimi mesi del 1944 alla fine del conflitto, quando l’Italia entro nella fase più dura e tragica della propria storia, “Il circo ridotto ai minimi termini raggiunse Como e vi restò insabbiato” scrisse ancora Enrico Bassano, biografo di Darix. “Morti tutti gli animali, allontanati i “boemi” (gli inservienti o operai) e gli artisti scritturati, i soli appartenenti alla famiglia Togni diedero spettacoli diurni ai quali partecipava ben poco pubblico, per via dei continui allarmi. I tre “Sorellini” (il trio di clown formato da Darix e Vioris Togni col nanetto Checco Medori, ndr) andarono a lavorare in avanspettacolo a Milano e in altre zone della Lombardia”.
Durante la permanenza a Como, nel periodo della Liberazione, Ercole ricevette l’ordine dai partigiani di chiedere la resa ai tedeschi che erano asserragliati all’Hotel Plinius con l’oro e tutto quello che avevano potuto prendere. Ercole vi si recò con i fratelli e i nipoti, armati con fucili e mitragliatrici. Circondarono l’hotel e intimarono la resa, nell’attesa dell’arrivo degli Americani. Vi fu una trattativa con i tedeschi che volevano portare con sé ciò che erano riusciti a prendere, ma Ercole tenne duro e li costrinse a desistere: i tedeschi ottennero il lasciapassare per tornare in Germania ma senza oro né soldi. A quel punto, con i mezzi rimasti e i pochi animali superstiti, i Togni raggiunsero Milano e a maggio ripresero gli spettacoli. Seppur duramente colpiti, si trovavano in una condizione probabilmente migliore di quella della maggior parte dei colleghi e poterono ripartire con quella marcia in più che caratterizzerà tutti gli anni Cinquanta.
Articolo tratto dal nono numero speciale della rivista Circo – Fiori dal cielo estate 2022