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Moneta: “Ho imparato dal circo come ottenere la collaborazione dei cavalli”

luca-monetaROMA – Là fuori, a poche miglia di distanza, galoppano gli ultimi wild horses, i cavalli selvaggi che si rincorrono nel deserto del Nevada, come per milioni di anni hanno fatto i loro progenitori nelle steppe euroasiatiche e americane. Sulla sabbia dell’arena del Thomas & Mack Center, invece, “danzano” i loro cugini domestici, risultato di una selezione e di un addestramento che li ha trasformati in atleti straordinari: sono i migliori cavalli del mondo in fatto di salto ostacoli. Si affrontano in tre giorni di gare nel cuore di Las Vegas: domenica sarà incoronato il vincitore della coppa del mondo di “jumping”.
D’accordo, poi gli onori andranno soprattutto al cavaliere o all’amazzone vincitrice. Il cavallo si farà bastare qualche pacca sul collo, una coccarda sulla testiera e una razione extra di fieno al rientro nel box. Lo sa bene Luca Moneta, unico italiano ad essersi qualificato per questa finale della Fei World Cup con il suo amatissimo Connery.

Moneta, un volo intercontinentale, tre giorni di gare con ostacoli e velocità al limite… Come la prendono i cavalli?
“Se potessero scegliere preferirebbero certamente vivere liberi in un branco, piuttosto che essere montati da un essere umano. Quello che noi possiamo fare, che io cerco di fare, è portarli in gara non con la costrizione ma contando sulla loro collaborazione. Li coinvolgo nel gioco perché si divertano con me. E penso di riuscirci”.

Lei e Connery siete a Las Vegas unici rappresentati dell’equitazione italiana in un evento che raggruppa i migliori binomi del mondo. Come ci siete arrivati?
“La Coppa del Mondo organizzata dalla Federazione equestre internazionale è un circuito di gare indoor divise per continenti. Ogni continente ha un suo girone e si qualifica per la finale chi fa più punti. L’Europa aveva 18 posti disponibili. Io e Connery abbiamo gareggiato tutto l’inverno nelle varie tappe europee con buoni punteggi: alla fine siamo risultati sedicesimi ed eccoci qua”.

Qual è il binomio da battere in questa finale?
Ride. “Non vado in gara pensando a questo. Io faccio il mio. Cerco di dare il massimo e di ottenere il massimo dal mio cavallo. E di divertirmi con lui”.

Non è un approccio molto diffuso nel mondo del salto ostacoli.
“No, non lo è. Ma io ho fatto un percorso un po’ diverso rispetto a quello della maggior parte dei miei colleghi. A un certo punto della mia carriera ho mollato l’equitazione tradizionale per il circo”.

Il circo?
“Si, ero affascinato da quegli artisti che riescono a gestire, non uno, ma più cavalli a distanza senza l’aiuto di redini o lunghine. Io, che pure ero già un istruttore e un atleta ad alti livelli non riuscivo a capire come facessero. E allora mi sono messo a studiare”.

Cosa ha imparato?
“Per ottenere dai cavalli ciò che fanno negli spettacoli circensi bisogna comprendere il loro atteggiamento mentale e psicologico. Solo così si può chiedere la collaborazione di questi animali generosissimi. Sono sempre ben disposti e se non fanno ciò che vogliamo è per tre motivi: hanno paura e allora li dobbiamo rassicurare, non capiscono e allora ci dobbiamo spiegare meglio, non stanno bene e allora li dobbiamo curare. Dal circo ho imparato tutto questo e poi l’ho trasferito alle gare”.

Nel circuito internazionale del salto ci sono altri che usano lo stesso approccio?
“Al momento sono l’unico al mondo”.

Qual è lo stato di salute dell’equitazione in Italia?
“Abbiamo avuto una grandissima tradizione, ma ci siamo adagiati sugli allori. E mentre noi vivevamo nel ricordo dei grandi cavalieri italiani del passato, gli altri sono andati avanti. Ora per fortuna il movimento equestre italiano sembra aver capito e ha ricominciato con umiltà a studiare. Molti dei nostri migliori cavalieri lavorano con maestri stranieri in Germania, Olanda, Belgio”.

C’è addirittura bisogno di maestri stranieri?
“Anni fa andai a studiare da un grande cavaliere americano, George Morris. Lui era stupito: ma come, vieni da me che ho imparato tutto dai fratelli D’Inzeo? Gli risposi che sì, in Italia avevamo avuto i D’Inzeo ma non avevamo più nessuno che sapesse spiegarci la loro equitazione”.

Oltre ai pochi risultati nelle gare internazionali, l’equitazione italiana soffre anche di disaffezione da parte dei giovani. Cosa si può fare per far tornare in sella i ragazzi?
“Si deve puntare meno sull’agonismo e più sulla passione per i cavalli. L’agonismo è selettivo e spietato, anche dal punto di vista economico. Bisogna che i ragazzi considerino i cavalli un bellissimo gioco”.

Lei ha sperimentato anche la doma dolce.
“Si, ho studiato con Pat Parelli e nell’addestrare i miei cavalli uso il suo metodo. Non solo: quando i miei cavalli non sono in gara li tengo sferrati. E qui a Las Vegas Connery gareggerà con i ferri solo sugli zoccoli anteriori, più sollecitati nella fase di atterraggio dopo ogni salto. Fa tutto parte del mio modo di intendere il rapporto con questi animali che deve essere il più naturale possibile”.

Mentre si prepara per la grande sfida di domenica pensa mai ai mustang che corrono liberi intorno a Las Vegas?
“Anni fa un indiano Cheyenne mi spiegò come i pellerossa addestravano i loro cavalli. Da allora ho un sogno: venire qui e studiare come vivono davvero i wild horses. Ma per poterlo realizzare dovrò aspettare ancora un po’. Adesso io è Connery dobbiamo divertirci con Fei World Cup”.

LUCA FRAIOLI

Repubblica.it

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