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Massimo Alberini: il rigore del giudizio in pista e a tavola

Sul numero di gennaio di Circo leggo a pag. 18 una affermazione, espunta da un vecchio numero del Corriere della Sera, che mi riconduce a una serata accanto a Massimo Alberini in un locale della Brianza in cui si faceva gastronomia con amore di ricerca. Ecco la frase: “Esempio di sobria eleganza, un vero raffinato signore d’altri tempi, era un’autorità: e quando uno chef lo vedeva entrare nel suo locale, si sentiva come uno studente all’esame di maturità”. Verità sacrosanta. Devo a lui se una sera ho bevuto una cosa quasi unica al mondo. La cena, infatti, era terminata e al tavolo eravamo rimasti solo Massimo e io. Lo chef, con aria da cospiratore, si era avvicinato e aveva mostrato al grande studioso di arte culinaria una bottiglia dal contenuto prezioso offrendogli un assaggio. Alberini assaggiò, e poichè ero al tavolo con lui ebbi io pure l’onore di un bicchierino, benchè il mio analfabetismo gastronomico non mi permettesse di distinguere la differenza fra un’aranciata e uno champagne. Seguì un commento molto dotto di Alberini, il cui ricordo mi induce adesso a parlare non di vini ma di circo. La statura culturale di Massimo Alberini pareva posta lì a dimostrare che fra due cose tanto diverse un elemento di unità era possibile. Ricordo un’altra sera con lui, legata alla presentazione in una elegante libreria milanese di un suo volume dedicato alla cucina. Si cenava a un tavolo con un gruppo di colleghe giornaliste, e a loro Massimo si rivolse (con me sarebbe stata impresa disperata!) per invitarle a fare una riflessione approfondita sulla validità di una certa commistione di ingredienti che stavamo degustando. Non teneva una lezione di alta cucina, chiedeva alle signore di aiutarlo a valutare le potenzialità gastronomiche di un certo tipo di ricetta. Ecco la peculiarità del maestro: la ricetta, o meglio una ricerca di rigore scientifico su una commistione di valori gastronomici capaci di produrre valore aggiunto a una cucina già collaudata. Sono sicuro di quello che dico, anche se il paragone può apparire fantasioso, quando affermo che questo era l’approccio di Massimo Alberini anche quando giudicava circo. Esaminava l’esercizio con l’occhio rigoroso di chi cerca il valore aggiunto e talvolta è invece costretto, per effetto del rigore medesimo, a constatare un disvalore. Non che la ricerca della “ricetta” lo condannasse alla mancanza di entusiasmo, tutt’altro. Più di una volta mi è accaduto di essere alle sue spalle, in circo, e di vederlo saltare sulla sedia per l’esultanza di un certo esercizio posto in essere dall’artista. Ma dopo l’entusiasmo era in lui la verifica della “ricetta” acrobatica. Per esempio, la volta che il trapezista Tony Steele eseguì sotto i suoi occhi il triplo salto mortale, evento quasi imprevedibile allora. Confesso che io, se mi fossi trovato a intervistare al suo posto l’acrobata, sarei stato ansioso di capire subito il tipo di uomo che stava “dietro” il prestigioso risultato e mi sarei ben guardato dal “perder tempo” con certi dati tecnici. Invece, Alberini si fece consegnare punto per punto la “ricetta acrobatica”, compreso un dato importantissimo a livello tecnico quale la lunghezza delle corde che tenevano legata la sbarra. Un approccio rigoroso, scientifico, che nella mente di Alberini si mescolava con la comparazione di tanti altri numeri della medesima specialità da lui visti un po’ in tutto il mondo o “letti” nella sua immensa biblioteca che oggi è in ottime mani presso la sede del CEDAC. Ecco perchè non solo i gourmet, ma anche i circensi, ascoltavano a capo chino i suoi giudizi. Lezioni magari discutibili, talvolta, ma sempre all’insegna di un rigore che in un mondo superficiale come quello giornalistico (lasciatelo dire a uno che ci sta dal 1957!) davano l’impressione di un fenomeno (quasi) unico e irripetibile.
Ruggero Leonardi