Il circo che dialoga con il teatro e le altre forme di spettacolo, come danza e canto, dà vita a una formula che parla soprattutto al cuore.
Origini che si perdono più in là di qualche decennio, ma freschezza sempre attuale. E il mix di nouveau cirque e tradizione teatrale cecoviana, in aggiunta a un sapiente uso di luci, ombre e proiezioni fanno di Donka – una lettera a Cechov, il nuovo spettacolo scritto e diretto da Daniele Finzi Pasca, un vero successo, premiato più volte nel corso della serata da applausi a scena aperta.
Lo spettacolo, in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 15 maggio, racconta una storia, quella di Anton Cechov, il drammaturgo russo nato 151 anni fa, ma non si dipana come una biografia, bensì fornisce stralci, suggestioni, singole immagini che vorticano per tutta la durata dello spettacolo. La non continuità di questi frammenti di vita si salda grazie proprio ai momenti emozionanti, spesso divertenti, comunque coinvolgenti, che la tecnica circense apporta.
Ad aiutare a muoversi in questo vasto giardino possono essere d’aiuto le parole dello stesso Finzi Pasca (già autore in passato di alcuni successi firmati Cirque Eloize o Cirque du Soleil), riportate sul programma di sala: “Amo i silenzi, le pause, i momenti di sospensione […] Ho deciso di scoprire Cechov allo stesso modo, andando alla ricerca di particolari, di dettagli, nella sua vita, nelle pagine dei suoi scritti e non solo […]. Vengo da un teatro impregnato profondamente del linguaggio dei clown, dei giocolieri, del mondo delicato e magico dell’acrobazia”.
Ecco che da piccoli dettagli si anima una storia: l’ombra di un uomo che pesca (Cechov amava pescare), alla sua lenza è legato un campanello, e il suono riverbera per tutto lo spettacolo. Attimi di musica, di canto, danza, giocoleria, acrobazia vera o parodiata: le tre sorelle (ma potrebbero anche essere le tre donne davvero importanti per Anton Cechov, la madre, la sorella e la moglie) prendono vita e le vediamo come non sono mai state viste a teatro, ovvero in un divertente numero al trapezio. Personaggi si animano dalle pagine e, inafferrabili, prendono il volo. Il ghiaccio, quello della Russia ma anche quello che avrebbe dovuto dare sollievo a un Cechov ormai ai suoi ultimi giorni di vita, come pretesto per pattinare o per riempire il palcoscenico di schegge che si rompono da ricordi lontani; l’ospedale che il drammaturgo visitò dapprima come medico e presto come paziente; e le macchie. Sul bianco che permea tutto lo spettacolo sono sparsi petali rossi, a citare la sua malattia, la tubercolosi. Tutto è una visione che leggera si muove in equilibrio tra la vita reale dell’autore e il sogno che prende vita dalla scrittura.
Cechov è paragonato a un clown, e i clown, come si dice durante lo spettacolo, sono delle macchie. Ce ne sono di ogni tipo e dimensione: di acqua, di profumo, di vernice, anche di sangue…
E’ il ricordo, la memoria evocata, l’ossessione di una traccia, che traspaiono dallo spettacolo: spesso si rincorre la parola anima, soprattutto ci si chiede dove essa si trovi.
E alla fine un’attrice dice che per i clown l’anima è nelle scarpe. Le cose semplici racchiudono i significati più ampi.
Quando un poeta è davanti a un foglio bianco, con una penna in mano, e una tazzina di caffè a lato non vuol dire che non stia facendo niente: Cechov era un poeta, e quello che ha cercato di fare con la sua penna è stata una sorta di pesca, per non sprofondare nelle sue scarpe.
Bellissima l’immagine in chiusura: Cechov nel suo letto, agli ultimi istanti di vita. Prima che la luce si spenga qualcuno gli mette addosso l’abito luccicante di un clown.
Stefania Ciocca