Arlecchini, clown e saltimbanchi sono stati molto amati da Picasso, soprattutto nel periodo che va da quello cosiddetto blu al rosa, tanto che l’acquaforte «Le repas frugal», la prima delle altre quattordici che formeranno la serie nota come i «Saltimbanchi», realizzata tra il 1905 e il 1907 ed edita da Vollard nel 1913, è una delle sue immagini più conosciute nonché pietra miliare dell’incisione del XX secolo. Niente di strano perché, da spagnolo, Picasso ben conosceva il Goya pittore delle scene clownesche di feste popolari come «L’inumazione della sardina», «La marionetta» o «Il gioco dei giganti». E probabilmente aveva anche visto le incisioni con i pulcinella di Giandomenico Tiepolo che a Madrid aveva lavorato col padre Giambattista. Insomma, la tradizione esisteva (lui stesso aveva già dipinto, nel 1901, il celebre olio «Les deux saltimbanques» oggi al Puskin di Mosca), e coincideva con la narrazione di una vita povera, spesso disperata, ma anche poetica, che Picasso conduceva in quel periodo.
Erano gli anni dell’atelier in rue Ravignan 13, a Montmartre, battezzato Bateau-Lavoir dal poeta Max Jacob, gelido d’inverno e torrido d’estate. Picasso ci abitava con Fernande Olivier e per alcuni mesi non poté uscire di casa perché non possedeva nemmeno le scarpe. Erano giorni di pasti frugali anche per lui, tanto che alcuni vedono nella magra donna saltimbanco l’autoritratto del pittore che si e ci guarda come in uno specchio, riflettendo la vita misera e di emarginazione che brulicava tutt’intorno a lui nella Montmartre assediata da poveri artisti, reietti, prostitute, bambini abbandonati, cantanti di strada, gente che sopravviveva con espedienti e si stordiva con alcool, oppio e assenzio. I saltimbanchi, il circo, erano il bagliore colorato di quella vita grigia e senza regole, giocata sui doppi salti mortali per sopravvivere, in bilico sulla fune sottile della miseria, eppure sorretta da un sogno. Molti artisti ne furono affascinati: a volte, come per Seurat, esaltando maggiormente i balenii di quel gioiello farlocco; altre volte cogliendone i luccichii più opachi e melanconici, come per Chagall.
«Pulcinella e i saltimbanchi», 1791, del Tiepolo. Ma più sorprendente è il fatto che un soggetto come quello del circo – un tipo di divertimento oggi ormai quasi solo destinato all’ingenuità dei bambini e soffocato da tutt’altra industria dell’entertainment basata su televisione, cinema, film in 3D, concerti spettacolari delle rock star – non è affatto morto e, anzi, sembra vivere un grande revival. L’americana Cindy Sherman, per esempio, gli ha dedicato un’intera serie fotografica dove l’artista, che basa l’intero suo lavoro sulla trasformazione dell’identità, si è ritratta nei panni di diversi clown rimandando l’immagine di un divertimento forzato, con i colori saturi e scintillanti della televisione, stucchevole come i trucchi e i travestimenti che ci impone la società. Un’inconciliabilità radicale fra il divertimento e la sua rappresentazione.
Ma molti altri sono i lavori di segno simile, come per esempio il «C’il Eam Habbim» di Tobias Rehberger, una sagoma di Bambi in alluminio serigrafato con la testa del piccolo Michael Jackson che corre su binari come gli obiettivi mobili delle giostre da centrare con la pistola. Ironico e crudele tiro al bersaglio che colpisce le icone fiabesche e popolari dei bambini.
È un filone, questo frequentato da Rehberger, artista tedesco classe 1966, leone d’oro alla Biennale di Venezia, molto preciso e individuabile dell’arte contemporanea: il suo carattere ludico si fonda sulla costruzione di oggetti simili a enormi giocattoli che trasformano le mostre in luna park.
In alto, Double Carousel del belga Höller; sotto, Cindy Sherman nei panni di un clown, e il «Charlie» telecomandato di Cattelan alla Biennale 2003Principe di questa tipologia di arte è senz’altro il belga Carsten Höller, classe 1961, eccentrico costruttore di lande popolate da giganteschi funghi velenosi come quelli dei cartoons di Biancaneve, di altalene, ufo e di giostre come «Double Carousel» di recente esposte al Macro di Roma. Miuccia Prada, sua grande estimatrice, possiede un suo scivolo a spirale (fu esposto alla Biennale di Berlino) che collega i piani del suo ufficio.
Ma è interessante notare che anche i pezzi da «giostraio» di Höller dietro l’apparenza gioiosa nascondono sempre un sottile pericolo o veleno, come quello celato nelle magnifiche apparenze dell’amanita muscaria.
Anche nel revival di oggi, quello della clownerie è dunque rimasto un modo per arrivare al tragico attraverso la catarsi del riso, il manifesto di un’allegria temporanea, che dura il tempo della spettacolo e poi passa. Una metafora della fragile precarietà degli uomini e in particolare dell’artista. E in questo senso Maurizio Cattelan ha forse creato la sintesi più efficace con il suo Charlie meccanico, il suo alter ego bambino seduto su un triciclo, a dimensioni reali, trasformato in giocattolo telecomandato che nei giorni dell’inaugurazione ufficiale girava per le sale della Biennale di Venezia del 2003 come un fastidioso guastatore, un corpo estraneo, riuscendo così a svelare il vero volto farsesco della kermesse d’arte nascosto sotto una sussiegosa maschera mondana.
Francesca Bonazzoli
Corriere della Sera