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La guerra non ferma il circo

di Gilberto Zavatta

Cosa vuol dire vivere durante la guerra? Che significato concreto assume la parola “paura”, quando l’incertezza sul futuro regna sovrana e si nasconde ovunque? Può rispondere Gilberto Zavatta, decano del circo italiano, che da bambino ha conosciuto tempi bellici (quelli del secondo conflitto mondiale), riportati qui dalla sua viva voce. Quella di un circense sotto le bombe.

Il Circo Togni durante il carnevale milanese nel 1938.

Viaggiare non era più possibile. La benzina era ormai introvabile e ogni veicolo in movimento costituiva un bersaglio per gli aerei degli “alleati” che imperversavano nei cieli quasi indisturbati, attaccando senza distinzione tra mezzi militari e normali camion da trasporto di merci varie. Era il 1944, l’anno di guerra più turbolento, più pericoloso, più drammatico. Per arrestare dunque la nostra attività avevamo scelto un piccolo paese in provincia di Venezia, Vigonovo, situato a dieci chilometri da Padova. All’inizio era stato montato il circo, nella speranza di riuscire ad effettuare qualche spettacolo, ma poco dopo era stato deciso di smontare tutto considerando che di giorno il padiglione poteva invogliare qualche aereo a mitragliarlo, mentre di notte era il famigerato “Pippo” a fare paura, ovvero l’aereo inglese che terrorizzava la popolazione sganciando bombe su ogni luce visibile. In quel prato dove erano situate, le carovane erano molto vulnerabili ma non potevamo farci niente se non sperare nella fortuna. Torniamo indietro nel tempo fino al settembre del 1943. Subito dopo l’armistizio chiesto ed ottenuto dagli alleati. Il famoso “ribaltone”, con il Duce fuori causa. L’esercito italiano si era dissolto e frammentato. Una parte si era decisamente schierata con gli alleati quindi contro i tedeschi, ma un’altra parte, quella formata dalle divisioni distaccate in Jugoslavia e nelle isole greche, era stata sopraffatta dai nazisti e deportata in Germania come forza lavoro. Una terza schiera di soldati aveva gettato alle ortiche l’uniforme fuggendo via (si veda il film con Sordi Tutti a casa). Il Duce, però, che dopo il suo arresto per ordine del Re era stato liberato dai tedeschi con un colpo di mano, aveva ben presto costituito la RSI (Repubblica Sociale Italiana) con sede a Salò e, per mezzo della radio e di migliaia di manifesti, aveva intimato a tutti coloro che avevano abbandonato le armi e l’uniforme a ripresentarsi pena la corte marziale.

L’Arena Diana nel 1939

Molti di quei giovani con rassegnazione erano ritornati nell’esercito, non più regio ma fascista, altri invece avevano preferito darsi alla macchia e diventare partigiani ottenendo che, a fine guerra, se sopravvissuti si sarebbero trovati dalla parte giusta. I tedeschi erano imbufaliti, avevano iniziato a detestare gli italiani “traditori” e nei mesi seguenti ce l’avrebbero fatta pagare cara. Ma ritorniamo ora all’estate del 1944 in quel di Vigonovo. Eravamo sempre in allarme. I paesi vicini venivano sistematicamente bombardati dagli anglo-americani e i tedeschi continuavano a fare retate di uomini da inviare in Germania; pertanto, papà e gli zii erano perennemente in pericolo. Noi tutti, con molta fatica, avevamo scavato una grande buca profonda un metro e mezzo e lunga 5-6 metri sopra la quale avevamo trainato la lunga carovana dei nonni. Ad ogni allarme tutta la famiglia si accucciava dentro.

La paura era tanta poiché spesso passavano poco lontano convogli di automezzi tedeschi sempre in cerca di uomini validi da deportare. Un giorno una bomba d’aereo aveva centrata la piazza del paese a cento metri dalle nostre carovane. Una scheggia grande come un piatto era penetrata come fosse nel burro nella parete della carovana dei nonni. Se avesse colpito una persona l’avrebbe tagliata a metà. Era seguito un inverno duro sotto tutti gli aspetti. Nell’aprile 1945 i tedeschi ormai in rotta avevano messo nella piazza del paese quattro cannoni che, un giorno, tuonarono per quasi un’ora probabilmente verso Padova già liberata. Poi, dopo aver messo fuori uso quelle bocche di fuoco, i soldati si apprestarono ad andarsene con una camionetta. Noi, nella buca ormai divenuta una residenza fissa, guardavamo tutto quando, nella piazza, erano sbucati dei giovani armati che iniziarono a sparare contro i tedeschi i quali, sopresi, erano saliti velocemente sull’automezzo e partiti; alcuni colpi sparati da quei partigiani improvvisati erano però andati a segno e due corpi erano rotolati giù dalla camionetta.

Adalgisa Rossi in uno scatto del 1932.

Dalla nostra trincea avevamo osservato tutta la drammatica scena. Giunta la sera non avevamo osato fare rientro nelle nostre carovane per dormire e ci eravamo arrangiati a trascorrere la notte nella buca stessa. All’alba di un mattino d’aprile del 1945, ci giunse alle orecchie il potente sferragliare di un mezzo pesante in avvicinamento. Un grande carrarmato si era arrestato a meno di cinquanta metri dalla nostra posizione. Su di esso c’era una decina di soldati che erano subito scesi e conversavano fra loro. Noi, col batticuore, temevamo che qualcuno udisse anche solo il nostro respiro. Ma io mi ero accorto di qualcosa: “…Papà, zio… ma… gli elmetti e le uniformi sono diversi… non sono tedeschi”. Infatti, erano inglesi. Sbucammo fuori pieni di eccitazione. Mia nonna si avvicinò ai soldati con la mano tesa. “…Hello friends… mi chiamo Pauline Wilson e sono inglese come voi…”. L’incubo era finito ed eravamo tutti vivi e al culmine della gioia.

Articolo tratto dal nono numero speciale della rivista Circo – Fiori dal cielo estate 2022

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