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La grande notte del circo Fortuna è il racconto col quale Miranda Miranda partecipa al concorso Letteralmente Circo. Miranda vive a Napoli. Dal 2000 al 2011 ha pubblicato un libro di racconti, “Le Malecorde” (Marotta), tre romanzi, “Bellissima Regina” (Filema), “Per diverse acque” (Avagliano), “Il mare sospeso” (Cavallo di Ferro), questi ultimi finalisti rispettivamente ai premi Rea e Il Paradiso degli Orchi, il reportage “Il Portogallo è un’isola” (Confine). “Nel racconto ho unito due suggestioni di grande fascino per me, le canzoni degli anni ’60 e ’70 ed il circo con i suoi artisti, veri artigiani del movimento come io sono artigiana, e spesso anche giocoliera e funambola, di parole”, scrive di sé Miranda Miranda. I precedenti racconti pubblicati si possono leggere qui.

La grande notte del circo Fortuna

La grande piana che portava fino al mare appariva rarefatta sotto il cielo del pomeriggio. L’aria, arida come le canne che costeggiavano la strada, si disfaceva nel sole, popolata soltanto dal secco suono delle cicale, il verso rauco e indignato che esse alzano al cielo, divinità minori abbandonate sulla terra da una incomprensibile punizione olimpica.
Era l’ora più calda della giornata, e la più deserta; i pochi villeggianti dormivano stanchi della fatica del mare. La bambina percorreva tutta la via Laura e, dopo una breve stradina, sfociava nella via Magna Grecia. Pedalava rapida; al suo lato, la messe dorata degli erbaggi incolti si agitava al soffio che veniva dal mare e cominciavano ad apparire le prime pietre sparse, come ovini accovacciati su un prato. Ecco il casolare che pareva fatto di terra compressa, la base di una colonna, i pini marittimi a distanze ineguali e il tempio di Cerere che, col suo frontone alto come un diadema, allargava l’orizzonte e preparava lo sguardo a quello immenso di Hera. Quando finalmente arrivava al tempio di Poseidon, ella scendeva dalla bicicletta e si inoltrava fino ai gradini corrosi: sotto il sole meridiano tutti i templi prendevano un colore rosato, ma quello del dio del mare diventava di oro bronzeo e luminoso. Allora si sedeva a terra, nel silenzio appena sfiorato dal vento; il respiro di un’immortale bellezza sembrava passare tra i marmi indorati.
Al ritorno, nell’aria appena accennata della sera, le cicale continuavano a spanciarsi; da lontano, il mare sembrava ancora ospitare nelle sue profondità il dio che aveva dato il suo nome alla città dei Sibariti, nell’unica ora gloriosa che avesse mai vissuto.

Parigi, agosto 1966

A rue de Parme, una Bentley grigia scivolò accanto al marciapiede, fermandosi all’hotel Secrét de Paris. L’autista si dispose ad aspettare e Lucien Morisse si accese una sigaretta. L’espressione seria fra le orecchie sporgenti si distese, ombreggiando perfino un sorriso; chi sa come sarebbe finita la sua avventura con quel giovane ribelle di cui era il manager. Glielo aveva portato suo nipote, circa un anno prima: aveva riconosciuto, nell’hippy che suonava la chitarra sulle scale di Montmartre, il suo compagno di scuola Michel Polnareff, figlio di una ballerina e di un musicista, enfant prodige già a tre anni. La pratica precoce del pianoforte non gli aveva scolorito l’inclinazione al rock, né gli aveva aggiunto una disciplina in più: estroso e selvaggio, quel ragazzo di ventidue anni aveva già lo sguardo concavo, rivolto unicamente a se stesso. Lo conosceva bene quello sguardo, anzi si poteva dire che gli artisti li sceglieva anche in base a quello: la fisionomia aperta e simpatica aggancia il pubblico, ma non è il segno di quel sofferto rapporto con se stessi da cui nascono le grandi canzoni.
“Un folle” aveva esclamato Gerard. “Ha rifiutato di firmare il contratto con la Barclay per il timore che lo legassero troppo. Va bene odiare le convenzioni, però…”
L’audizione era stata emozionante. Il ragazzo guardava davanti a sé o fissava lo sguardo sulla chitarra, dando l’impressione di volerla quasi sfiorare col suo lungo naso d’uccello; le sue dita di pianista avevano toccato le corde con una consapevolezza sconcertante per i suoi anni. La voce, duttile come l’acqua, poteva innalzarsi fino a diventare uno puro strumento di gola. Quando aveva finito, Morisse non aveva saputo subito cosa dire; imbracciata la chitarra, il giovane si era ritratto nelle spalle e, interpretando male il suo mutismo, si era avviato alla porta. Solo quando vide allontanarsi le frange dei suoi stivaletti, egli si riscosse.
“Très bien!” concluse, prima che il ragazzo fosse uscito del tutto.
Da quel momento aveva protetto la sua insofferente libertà, eliminando dal contratto quegli impegni che a Michel sarebbero sembrati troppo gravosi e gli aveva fatto incidere il suo primo disco: in pochi mesi, la canzone era diventata famosa in tutt’Europa. La sua emittente Europe 1 era captata ovunque e il pezzo adesso era suonato dai giovani di ogni paese. Michel non era stato travolto dal successo improvviso: badava a scrivere nuove canzoni e a difendere ancora più gelosamente il suo stare al mondo.
In fondo, pensò Morisse, loro due erano uguali: entrambi coraggiosi fino allo spasimo e animati da una passionalità che lavorava sottotraccia.
“Io sono solo un animale più vecchio e prudente” sorrise di nuovo fra sé.
Le nuvole, gonfie di calore e di umidità, si addensavano nel cielo di quella giornata senza colore. Michel aprì lo sportello, adagiandosi sul sedile vellutato; portava solo un grosso zaino con sé.
“Très bien!” ripeté Morisse con quella rassicurazione che, dopo la prima volta, aveva adottato come saluto quando si incontravano. “Vedo che fai progressi: l’attesa oggi è durata solo il tempo di una sigaretta!”
Michel non rispose, stringendosi nelle spalle com’era sua abitudine quando un imbarazzo o un disagio lo portavano lontano.
“Contento di questo viaggio in Italia?” Chiese Morisse dopo un po’, guardando l’asfalto grigio che correva silenziosamente alla sua sinistra.
“Lo sai che queste promozioni mi annoiano. Incidere in italiano poi non mi importa affatto.”
“E fai male. L’Italia sta diventando un mercato interessante: non sottovalutarlo. Grande cinema, grandi scrittori, manifestazioni canore di ogni genere…”
“Appunto. Come quel baraccone che andremo ad incontrare, prima di quell’altra fiera.”
“Sei pessimista” Morisse si accese un’altra delle sue lunghe sigarette. “Quel baraccone è un’idea geniale che ripete il Giro d’Italia: una carovana di cantanti attraversa i paesi a tappe, toccando anche posti sperduti che fino a quel momento avevano conosciuto solo il raglio dell’asino. Invece si monta un palco e, voilà, musica nuova per tutti. E i cantanti, nelle loro auto scoperte, incontrano la gente, diventano vivi, e tutti applaudono al margine della strada, addossati a una transenna, come si fa per i ciclisti. Del resto, a te questa parte del viaggio importa poco. A me invece interessa vedere come si svolge e magari prendere accordi per piazzare qualche artista della mia scuderia l’anno prossimo.”
“Non contare su di me” ridacchiò Michel.
“Non l’avrei mai fatto” rise a sua volta Morisse. “Difficile immaginarti in fratellanza con gli altri cantanti a spartirti il pane e la strada.”
L’auto si fermò al semaforo.
“E si può sapere perché hai scelto proprio una tappa così assurda per studiare il Cantagiro?” riprese Michel, quando l’auto ricominciò la sua corsa moderata. “Un paesino nel sud dell’Italia, lontano da tutto! Perché non una grande città, non Milano, dove tra l’altro devo fare l’incisione? Da lì sarebbe stato facile arrivare a quell’altro posto vicino Pavia, dove debbo fare una comparsata… come si chiama? A quel festival che cosa.”
“Salice Terme, al Festivalbar. Lì canterai insieme a Françoise Hardy e Sonny e Cher. Non c’è male, mi pare. Anche quella è una grande idea: premiare le canzoni più gettonate in tutti i juke-box nei bar: i juke-box sono più di ventimila in Italia, che spinta per l’industria discografica! Comunque, nella pausa tra la tappa di Paestum e la finale del Festivalbar, inciderai a Milano le tue ultime canzoni. Tra l’altro, è stato proprio il tuo discografico italiano ad insistere per averti a Salice Terme, prenditela con lui. ”
La mezz’ora che li separava dall’aeroporto di Orly era trascorsa: cominciava a delinearsi l’imponente struttura color piombo.
“Ormai… E’ che mi piace poco l’italiano, è una lingua con troppe vocali. Sembra di dover tenere la bocca sempre aperta. Ma insomma perché Paestum?” Morisse si girò. Aveva un’aria allegra un po’ canzonatoria.
“Perché sono un sentimentale. Da piccolo, avevo una fissazione per la mitologia e i suoi dèi… Così ho sempre pensato che prima o poi avrei approfittato di un viaggio in Grecia o in Italia per conoscerli da vicino e questa mi sembra l’occasione giusta per unire lavoro e vecchie passioni. Vedrai che albergo: si trova proprio nella zona archeologica. E ti divertirai un mondo quando il Cantagiro passerà di là.”
Michel non ne sembrò molto sicuro.
“Mah. Sarà soltanto un altro circo” sospirò.

Paestum, fine agosto 1966

Il circo Fortuna era arrivato dal profondo della Calabria dopo ore di viaggio infuocato. Ora l’auto impolverata, ferma davanti ad una vecchia roulotte, dava l’idea di un mulo a cui fosse stata appena sganciata la soma.
La bambina si fermò a guardare. Quel pomeriggio si era spinta fino all’ampia radura coperta di stoppie che segnava l’ultimo limite prima del paese. Il sole era già basso; da quella parte, un odore di affumicato e di latte, di erbaggi bruciati e di fresco avvertiva che in lontananza le bufale stavano tornando a casa. Nell’aria che si faceva crepuscolo, scese dalla bicicletta e camminò fino allo spiazzo. La roulotte non assomigliava a quelle dei film americani: chiara e bombata, era solcata da profonde graffiature e coperta dalla polvere di parecchie strade. Su una scala, un giovane si affaticava ad innalzare su un grosso tendone un’insegna bucherellata e sbiadita, che portava scritto in rosso ”Circo Fortuna”; di sotto, una capretta addentava un fascio di manifesti.
Un vecchio robusto camminava lentamente, chiacchierando con un ragazzino; un cagnolo, il cui pelo ricordava la castagna bruciata, li seguiva. Più in là, una donna dal fisico sciupato lavava in un catino alcuni panni, che una bambina stendeva su un filo teso tra il portabagagli dell’automobile e un arbusto. Il vecchio si avvicinò sorridendo.
“Domani ci sarà un grande spettacolo” invitò, rigirando tra le mani un pezzo di spago.
“E dove? Qui?” La bambina appariva poco convinta.
“Certo, qui. E dove se no?” L’accento dell’uomo si approfondì, aprendo di più le e le o. “Porta la tua famiglia e vi assicuro che vi divertirete. Un grande divertimento nazionale. Giriamo tutto l’anno col nostro circo: ci conoscono fino a Napoli. Alle nove, non ve ne pentirete.”
La sera dopo, lo spiazzo era moderatamente popolato; nella mattinata, il vecchio ed il ragazzo avevano girato per tutto il paese, arrivando fino a Laura ed alla spiaggia, e, con un gracchiante megafono spinto fuori dal finestrino della 1100, promisero animali ammaestrati e straordinarie acrobazie. I manifesti erano stati affissi a caso, su staccionate e muri; una giraffa arancione, che avvolgeva col suo lungo collo la base di un fanale, aveva acceso ancor di più il desiderio della bambina. E così una varietà eterogenea di persone si era radunata dinanzi al circo: gente del luogo, qualche villeggiante, famiglie al completo che entrarono dopo aver pagato all’ingresso del tendone, nelle mani del ragazzino, un esiguo biglietto.
Spesse panche di legno erano disposte in semicircolo intorno ad una minuscola pista coperta di segatura, che nulla separava dal pubblico. Solo il centro del tendone era illuminato. Lo spettacolo incominciò: il giovanotto dell’insegna suonò col violino un’aria che la ragazzina, ondeggiando in un tutù sciupato, accompagnava con timidi passi di danza. Alla fine, si aggiunse il ragazzo, facendo rimbombare il tamburo che portava appeso al collo; il suo travestimento da pagliaccio si avvaleva solo di un enorme naso scarlatto. Lo seguiva la capra: addobbata con logori nastri rossi annodati al collo e sulle cornicine, pareva non capire bene dove si trovasse. Agitava la sua barbetta, guardando gli spettatori attonita e feroce.
“Qua Bella!” Si udì la vocetta acuta del ragazzo. La capra si issò sulle due zampe posteriori, agitando contemporaneamente quelle anteriori; ripeté due volte l’esercizio e infine galoppò per il giro della pista. Qualche sbuffo di segatura si alzò, andando ad investire quelli seduti in prima fila. Il ragazzino seguiva la corsa con un “op, op” a intervalli regolari e, quando infine l’animale si fermò dinanzi a lui, tirò fuori dalla tasca una pallina e la lanciò, incitando al grido di “Vai Bella!” Bella la riportò. L’esibizione si ripeté un’altra volta.
Un mormorìo percorse il pubblico. Il ragazzino e la capra si ritirarono e arrivò di corsa il vecchio con il cane scodinzolante.
“Signori e signore, graditissimo pubblico, siamo fieri di portare il circo Fortuna a Paestum, luogo di mare e di cultura… Viva Paestum!” Gridò all’improvviso, battendo le mani. “Bene, proseguiamo la nostra bellissima serata. Sono felice di presentarvi un numero magnifico, di eccezionale impegno e bravura, che verrà eseguito da due acrobati che si sono esibiti in tutt’Europa: signori, a voi i formidabili Magda e Franco!”
Un rullo di tamburo sottolineò la tensione del momento. Si fece avanti la donna, che aveva inguainato il suo gonfiore in un costume luccicante di lustrini; ella eseguì stancamente alcuni esercizi al trapezio e poi ricadde fra le braccia del giovane musicista. Questi si preparava a compiere il suo numero quando un fischio improvviso tagliò la pausa. Il giovane si fermò perplesso e ciò bastò a scatenare altri fischi misti a proteste. Per un momento sembrò che lo spettacolo dovesse interrompersi, ma dalle quinte accorse di nuovo l’anziano presentatore il quale, dopo un veloce inchino, cominciò a far volteggiare alcuni birilli colorati lanciandoli sempre più in alto, mentre il tamburo seguiva i suoi sforzi. Quando però, approfittando della momentanea attenzione del pubblico, egli propose: “Signori e signore, ecco il momento delle barzellette!” gli spettatori rimasero allibiti e silenziosi e, dopo alcuni deboli tentativi di suscitare qualche divertimento, il vecchio si rassegnò. La rappresentazione terminò senza applausi; come ad un segnale dato da un invisibile starter, la gente cominciò ad alzarsi e a defluire verso l’uscita. Seduta al suo posto, la bambina aveva sudato di disagio per gli sfortunati circensi quanto di delusione per sé. Se aveva desiderato, senza troppo crederci per la verità, la meraviglia degli animali che compiono azioni da uomini, le cascate di strass sui capelli corvini delle acrobate, i clown che sgusciano fra gli elefanti dalle vivide gualdrappe, adesso sentiva che solo una scoraggiata pietà aveva frenato l’indignazione del pubblico. Fu perciò con scoramento che si volse a dare un’ultima occhiata alle lampadinette che contornavano l’entrata del circo. Ancora una volta, il mondo si era dimostrato deludente: se spettacolo c’era stato, si era trattato di quello, tristissimo, della miseria.
Il grande slargo si era fatto deserto. Se continuava così, tra un paio di giorni, al più tardi, la carovana avrebbe dovuto lasciare Paestum per un altrove ancora sconosciuto. E non era certo la prima volta, neanche sarebbe stata l’ultima – su questo il vecchio non si faceva illusioni – e buon per loro che quel pubblico sparuto era formato da cafoni troppo timidi per dimostrare violentemente la loro disapprovazione. Infatti se nei borghi sperduti nel Sud dove la televisione non sarebbe arrivata così presto, le sue barzellette, l’esibizione della povera capra e degli acrobati destavano ancora un’ingenua meraviglia, nei paesi più grandi e aperti alla modernità la loro esibizione si dimostrava ormai semplicemente ridicola. Così pensava il vecchio con la testa tra le mani, seduto su una cassetta di legno dinanzi all’auto; dalla roulotte non arrivavano rumori, segno che tutti già dormivano. Il nipote lo raggiunse.
“Sei il re dei giocolieri, nonno” gli disse, sedendogli accanto. L’uomo sospirò, scrollando la testa con un sorriso e accarezzò il bambino sulla fronte.
“Per come mi trovo, figlio mio, posso essere solo il re delle formiche che vivono sotto terra” rispose con amarezza. Sotto la luce afona del lampione non parlarono più e finirono per assopirsi.
I mattini d’estate arrivano più presto del solito. Il lungo corridoio dell’albergo, con le sue grandi finestre spalancate, era pieno del profumo di pini e di fiori; Lucien Morisse, sbarbato e vestito di abiti leggeri, lo percorse tutto, andando di ottimo umore a fare colazione.
“Oh bonjour Michel!” Esclamò, vedendo arrivare l’amico. “Confessa, ti sei pentito: ieri hai dormito tutto il giorno e così oggi ti sei alzato all’alba per andare a vedere i templi! Alla fine, il fascino dei numi eterni ha colpito anche te. Très bien, anch’io mi sto avviando lì. Ieri non ho dedicato neanche un minuto all’archeologia per colpa del Cantagiro, sono riuscito ad incontrare solo Hermes, il dio degli affari. Ah, ma oggi starò ai templi tutta la giornata e ci tornerò anche stanotte, per contemplarli alla luce della luna. Anzi, perché non mi accompagni stasera?”
“Non posso.”
“Perché? Ti piace di più annoiarti in albergo?”
“E chi ti dice che starò in albergo?”
Morisse cercò il suo sguardo dietro le lenti scure, ma non lo trovò.
“Ah, ma allora… C’entra una donna, per caso?”
“Una donna? Una capra, piuttosto.” Michel rise forte. “No, non ho bevuto. Va’ a fare colazione, ci vediamo dopo.”
La sera prima Michel si era rifiutato di accompagnarlo al concerto del Cantagiro ed era uscito a piedi dall’hotel, rientrando a notte fonda. In quel deserto era da escludere la presenza di locali notturni, che del resto Michel non amava. Morisse rimase perplesso ma, quando arrivò ai templi, per molte ore dimenticò ogni cosa; raggiunse infine il tempio di Nettuno un po’ affannando, alzò lo sguardo e gli sembrò di essere tutt’uno con quell’urna di pietra dorata. Un alito di brezza leggera passò tra i vuoti del colonnato e, nell’abbandonarsi a terra Lucien vide, seduta a un lato del tempio, una ragazzina. Non lo aveva scorto, presa com’era dai suoi sogni e guardava lontano, verso il mare; una bicicletta era abbandonata sui gradini. Non volle interrompere quel silenzio e poggiò la testa sulla colonna dietro di sé, per godersi quel fresco; un richiamo rauco gli fece riaprire gli occhi e vide una capra che, tenuta allo spago da un vecchio, brucava quel poco d’erba fresca che riusciva a trovare.
“La capra di Michel” pensò per scherzo, richiudendo le palpebre; poi capì che poteva essere vero.
Michel era disteso sul letto della camera d’albergo; i suoi pensieri avevano il movimento ondulatorio dei rami che toccavano il vetro della finestra. Per pura curiosità la sera prima aveva deciso di assistere allo spettacolo del circo, quando i suoi passi distratti lo avevano portato proprio davanti all’insegna della famiglia Fortuna. In fondo, quei guitti non erano poi così diversi da lui, avevano solo bisogno di coraggio e di un po’ d’incasso per tirare avanti: l’idea che gli era venuta in mente si profilava sempre meglio. Sarebbe stata anche l’occasione per divertirsi come non gli succedeva più da molto tempo, fuori da quel sistema a cui appartenevano quei piccoli divi, minimi déi anch’essi dall’effimera fortuna, che erano passati per il paese tra svolazzi di autografi e battimani; al paragone, si sentiva molto più vicino alla gente del circo Fortuna.
La sera soltanto poche persone, per lo più contadini del luogo attirati dalla curiosità e dal prezzo ancor più basso del biglietto, aspettavano rumorosamente che cominciasse lo spettacolo. All’improvviso le luci si spensero e nel tendone l’oscurità impose un silenzioso stupore; un piccolo faro si accese ed illuminò una visione stupefacente: al centro della scena un uomo, il cui sguardo si nascondeva dietro squadrati occhiali neri, era in piedi sulla scala che serviva agli acrobati. Un gilè di paillettes, lucenti come scaglie, gli si apriva sul petto nudo lasciandogli scoperto anche il dorso, mentre i pantaloni dello stesso tessuto gli fasciavano strettamente le gambe; una parrucca gli copriva, voluminosa, il capo. Lentamente portò alla bocca un grosso megafono e dalla sua gola cominciarono ad uscire le note roche di una tromba in sordina, all’inizio lente e prolungate poi sempre più veloci, ripercuotendosi l’una nell’altra. La voce si alzò ancora e precipitò in una cascata di vocalizzi, si riprese in una serie incalzante di acuti, si rispose, per allungarsi poi in un acuto finale, in un altro e un altro ancora. A un tratto, il suono di una vera tromba e il suo bagliore dorato uscirono dal buio: il giovane acrobata cominciò a provocare il cantante in una gara serrata di sfide sonore, finché non fu più possibile distinguere il suono della tromba da quello umano. La voce oltrepassò la notte, arrivando fino al paese; raggiunse la gente seduta al tavolo del bar o affacciata alla finestra per un po’ di fresco prima del sonno, i ragazzi che accendevano falò sulla spiaggia, gli innamorati che passeggiavano in riva al mare. I paesani cominciarono ad interrogarsi: un suono come quello non si era mai sentito, sembrava provenire dalla periferia, dalla zona dei templi. I molti ch’erano ancora in strada, curiosi e affascinati, si avviarono da quella parte, seguendo quella risonanza che arrivava a ondate.
Il tamburo cominciò a battere, velocissimo. Con rapidità impressionante, la tromba umana lo assecondò, alzandosi sulle note più travolgenti del “Volo del calabrone”di Rimsky-Korsakov, in un duello di contrappunti che portò nuovi spettatori sulle panche. Era una specie di richiamo tribale, una voce primitiva e potente a cui era impossibile resistere. Quando i due strumenti smisero, un applauso fragoroso scoppiò nel tendone, che di certo non ne aveva mai visti di simili.
“Messieurs e mesdames” disse Michel. Poi, leggendo un foglietto tolto dalla cintura: “Signori e signore, sono onorato di presentarvi due veri artisti: l’acrobata Franco e Mario, il cane che canta! ”
L’accento esotico, la debolissima erre di quel giovane straniero catturarono un applauso, più intenso quando il cagnolino marrone arrivò graziosamente su due zampe ed eseguì un inchino che provocò risate ed entusiasmi da parte dei più piccoli. Dall’ombra, qualcuno porse al cantante una chitarra ed egli improvvisò una melodia, che il cane iniziò a punteggiare sapientemente prima con guaiti, poi con abbai decisi.
“Era una bambolina (uhiiiii) che fa no no no (uh, uh, uhuhu!), era così carina (uhiiiii,uhì!) e fa no no no (uh,uhu, uh!)”.
La gente si sbellicava. Alla fine del numero, il cane color ruggine s’inchinò sulle due zampe e disparve. L’acrobata Franco rubò la scena. La sua figura snella si appropriò del filo d’acciaio, sul quale prese a camminare con levità sconcertante, mentre la chitarra seguiva il passo del funambolo nel cielo del tendone; arrivato alla fine, egli si accinse a ripercorrere, arretrando, il suo cammino. Allora, tutti capirono di trovarsi di fronte ad uno spettacolo d’eccezione: seguirono col fiato sospeso il ritorno all’indietro dell’artista e un’ovazione lo accolse quando finalmente scese e salutò il pubblico.
Vicino all’uscita, un volto angoloso dall’aspetto forestiero spiccava fra le persone che ormai si accalcavano in piedi nel circo; Lucien Morisse girò lo sguardo intorno e vide la ragazzina che al mattino era nel tempio. Lo colpì la sua espressione concentrata e struggente, la sua indifesa sensibilità.
“Non c’è niente da fare, ci si nasce per stare scomodi in questa vita ” pensò e, aggiustandosi meglio nel suo angolo, continuò a seguire lo strabiliante spettacolo.

Sulla strada per Salice Terme, settembre 1966.

“Cosa stai facendo?” Lucien si distolse per un attimo dalla guida e guardò Michel che, seduto accanto a lui, scriveva su un notes.
“Una canzone.”
“Ah, una canzone. Bé,fammi sentire qualcosa. E’ così noioso guidare su quest’autostrada… Le auto in affitto non sono mai quello che vorresti. E come si intitola?”
“Il re delle formiche. E’ sul circo, naturalmente. Per adesso scrivo in francese, ma ho sentito Herbert Pagani per la traduzione: voglio inciderla in italiano.”
“Il circo… Ecco una nuova svolta per la tua carriera” lo beffeggiò Lucien.
“E chi lo sa? Ho capovolto una situazione piuttosto disperata solo con la forza della mia voce, ho cantato per gente talmente lontana dalla musica che, se mi ha applaudito, posso essere sicuro che potrò cantare dappertutto. O almeno di essere pronto per l’Opera.”
“Ma di questo io ero sicuro anche prima.”
“Ma io no. A proposito, vorrei fare qualcosa per l’acrobata. E’ bravissimo, meriterebbe di lavorare in un circo ben più grande, di quelli internazionali.”
“E ti pare che, per come è impastato il mondo, qualcuno potrà mai scoprire il suo talento in quella parte così dimenticata dell’Italia?”
“Non credo che il mondo potrebbe farlo, ma io conto su di te. Gli ho lasciato il denaro per l’aereo: tra due settimane sarà nel tuo ufficio a Parigi.”
Morisse si girò di nuovo a guardarlo con tutto lo sbalordimento di cui era capace. Michel scoppiò a ridere e, battendo un ritmo incalzante sul cruscotto, cominciò a cantare:
“Come un fiume che va per paesi e città
Passerà pure qua
La colorata tribù dei leoni e dei clown
Degli acrobati blù
Vedi questa sera tutta la città
Con il circo si divertirà
E tu alle nove si incomincia dai
Per due soldi quante ne vedrai…”