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Johann Wolfgang Goethe

Johann Wolfgang Goethe

Più di tutto piaceva a Guglielmo stare all’albergo poiché vi regnava l’allegria e vi succedevano ogni sorta di cambiamenti che lo interessavano. Era arrivata una numerosa compagnia di funamboli, acrobati, saltimbanchi che avevano con loro un uomo dall’aspetto molto forte e una gran quantità di donne e bambini e, mentre si preparavano ad una rappresentazione, ne facevano di tutti i colori. Ora bisticciavano con l’oste, ora tra di loro, e se i loro litigi erano alquanto fastidiosi, le loro manifestazioni di gioia erano addirittura insopportabili.
Sulla piazza del mercato Guglielmo vide costruito uno spazioso palco, fissati i trapezi, piantati i pali per la corda pendente e sistemati i cavalletti per la corda tesa. La mattina seguente si mosse il corteo che doveva annunciare alla cittadinanza lo spettacolo che le si stava preparando. In testa un tamburo e l’impresario a cavallo, dietro a lui una ballerina su un altro cavallo, scheletrico quanto il primo, con un bambino in groppa adorno di nastri e di lustrini, poi a due a due il resto della compagnia a piedi, coi bambini sulle spalle in posizioni bizzarre.
Pagliaccio correva su e giù tra la folla assiepata sgambettando in maniera comica e distribuiva i suoi foglietti con facezie quanto mai comprensibili, ora baciando una ragazza, ora sculacciando un ragazzino, e risvegliava nel pubblico un’irresistibile curiosità di conoscerlo meglio quella sera stessa. Nei manifesti stampati erano messe in rilievo le svariate risorse artistiche della compagnia, specie quelle di un signor Narciso e di una signorina Landerinette che, essendo i protagonisti dello spettacolo, avevano avuto il buon senso di astenersi dal corteo, per darsi a questo modo un tono di distinzione e destare maggiore curiosità.
Venne la sera; Guglielmo fu condotto in una casa dove s’era raccolta una numerosa compagnia e all’ora stabilita il pubblico non tardò a riempire la piazza e gli spettatori di un certo riguardo le finestre.
Dapprima Pagliaccio preparò il pubblico all’attenzione e al buon umore con alcune battute sciocche di cui abitualmente ridono gli spettatori. Alcuni bambini con strane contorsioni suscitarono di volta in volta meraviglia, orrore e compassione; ma piacquero molto di più i baldi acrobati che presero a volteggiare in aria ora l’uno dopo l’altro, ora tutti insieme, ora in avanti, ora all’indietro. Fragorosi battimani e grida di giubilo si elevarono da tutta l’assemblea. Poi l’attenzione si rivolse altrove: l’uno dopo l’altro i bambini dovettero camminare sulla corda, per primi i meno bravi, perché lo spettacolo durasse di più ed apparisse più evidente la difficoltà dell’arte.
Vi si provarono anche, con una certa abilità, alcuni saltatori ed una personcina già adulta; ma non era ancora il signor Narciso, non era ancora la signorina Landerinette. Finalmente uscirono anch’essi da una specie di tenda chiusa da cortine rosse e le lor graziose figure vestite di leggiadri costumi appagarono le speranze fin qui nutrite dagli spettatori. Lui, un ragazzo vispo e flessuoso di media statura con occhi neri e capelli foltissimi; lei, non meno graziosa, ma di robusta corporatura; tutti e due si alternarono su una corda con movimenti leggeri, salti arditi e posizioni bizzarre. La leggerezza di lei, l’audacia di lui, la precisione con cui entrambi eseguivano le loro acrobazie accrescevano l’entusiasmo generale ad ogni passo, ad ogni salto.
La grazia del loro portamento, le visibili attenzioni di cui gli altri li circondavano davano l’impressione che fossero signori e maestri di tutta la truppa, titolo di cui ognuno li giudicava degni. L’entusiasmo del popolo si comunicava agli spettatori affacciati alle finestre, le signore guardavano Narciso, i signori Landerinette, il popolo esultava e il pubblico più distinto non tratteneva gli applausi; appena appena si rideva ancora di Pagliaccio. Il giubilo e l’incanto erano così grandi che nessuno pensò di svignarsela quando alcuni artisti della compagnia si fecero strada tra la folla coi piattini di stagno per raccogliere i soldi.
«Sono stati veramente bravi», disse Guglielmo al compagno di viaggio che gli stava accanto alla finestra.
«Eppoi», replicò l’altro, «la ragazza è una creatura fresca e piena di vita».
«Hanno fatto tutto molto bene», disse Guglielmo. «Ammiro l’intelligenza con cui han saputo sfruttare anche gli esercizi più insignificanti eseguendoli al momento giusto, in ordine di progressione; dalle prove più semplici, direi quasi maldestre dei bambini, fino ad arrivare ai numeri più complicati ed ingegnasi dei loro virtuosi».
Il compagno di viaggio non era d’accordo con Guglielmo; anzi, dichiarò che tutte quelle inezie erano di una noia insopportabile e servivano solo a far perder tempo. Avrebbero dovuto eseguire l’un l’altro i loro numeri migliori e così tutto si sarebbe risolto in un quarto d’ora.
«Lei crede dunque», replicò Guglielmo, «che ciò sarebbe stato a vantaggio del pubblico e degli acrobati? Non è forse vero che ognuno mira a divertirsi per un po’ in modo vario e che gli artisti tendono a mostrare la loro bravura nella luce migliore?».
«Sono vecchi trucchi del mestiere; li ho visti usare ovunque».
«Comunque sia», disse Guglielmo, «la natura e l’esperienza hanno insegnato a questa gente le regole migliori e se nei pochi giorni che rimangono qui continuano a procedere per gradi e riservano, come ne sono persuaso, i numeri migliori alle loro ultime esibizioni, otterranno di certo un grande successo e guadagneranno molto denaro con uno spirito e un gusto che augurerei a molti scrittori».
Il forestiero, cui non piacevano questi discorsi astratti, incominciò a passare in rassegna le grazie di Landerinette, mentre Guglielmo ne analizzava con precisione le qualità artistiche.
Le previsioni di Guglielmo erano giuste: il secondo giorno l’arte di quella gente era in piena ascesa. I preamboli, se posso dire così, li eliminarono completamente, ciò nonostante tutto si svolse nello stesso ordine di successione del giorno prima; aggiunsero al programma alcuni esercizi più complicati e in apparenza più pericolosi, e sebbene le facezie di Pagliaccio fossero sempre le stesse, ad ogni ripetizione sembravano ottenere maggior successo. E come è stato detto da un pensatore che malessere senza dolore e grandezza senza forza sono le fonti profonde del ridicolo, si può anche dire che la goffagine premeditata, l’inettitudine in cui si nasconde una forza suscitano impressioni estremamente comiche e gradevoli.
In maniera altrettanto rapida crebbe anche l’entusiasmo per il signor Narciso e la signorina Landerinette; il giubilo, i battimani, le grida di «bravo!» divennero sempre più generali; i cordoni delle borse si allentarono e gli incassi furono considerevoli.
Un forestiero che stava con gli altri alla finestra, deplorò che non ci fosse più nella compagnia una piccola artista che aveva eseguito numeri diversi con grande maestria: in particolare la danza delle uova fatta in modo ineguagliabile.
Sul far della sera gli artisti scesero dal palco e vennero portati in trionfo a casa dal popolo festante.
Il terzo giorno, essendo straordinariamente aumentata la folla per l’affluenza dai luoghi vicini, anche la palla di neve del successo si andò sempre più ingrossando. Il salto sulle spade, quello attraverso la botte dal fondo di carta, ed altre cose simili mandarono in visibilio la moltitudine. L’uomo forte suscitò in tutti orrore, raccapriccio e meraviglia coricandosi con la testa ed i piedi appoggiati a due sedie discoste, e lasciandosi mettere sul corpo sospeso nel vuoto un’incudine sulla quale tre robusti fabbri forgiarono un ferro di cavallo.
La cosiddetta «piramide d’Ercole», in cui una serie di uomini sale sulle spalle d’altri e su quelli altri ancora finché ne vien fuori una piramide vivente al vertice della quale sta un bambino a testa in giù che la chiude direi quasi a mo’ di pomo o di banderuola, non s’era mai vista da quelle parti e concluse degnamente l’intero spettacolo. Il signor Narciso e la signorina Landerinette si fecero portare in portantina dai compagni per le vie più eleganti della città, tra le grida del popolo esultante. Si gettavano loro nastri, mazzi di fiori e fazzoletti di seta e si faceva ressa per vederli bene in faccia. Tutti parevano felici di poterli guardare e di ricevere da loro l’onore di uno sguardo.
Quale scrittore, quale attore non sarebbe felice di ottenere un successo così universale? E quale profondo senso di gioia proveremmo se potessimo diffondere ovunque, come per una scintilla elettrica, anche i sentimenti buoni, nobili, degni dell’umanità, e accendere così negli uomini un entusiasmo simile a quello che aveva suscitato quella gente coi suoi esercizi visibili! E se al popolo o almeno ai suoi migliori elementi si potesse infondere il sentimento di comunanza con tutto quello che è umano e sconvolgerlo e infiammarlo con la rappresentazione della felicità e dell’infelicità, della saggezza e della follia, della scempiaggine e della stoltezza, scuotendone la stagnante pigrizia interiore! Solo allora, io penso, avverrebbe quello che si attendeva dalla tragedia l’antico filosofo, la purificazione delle passioni. Tutto preso da questi pensieri Guglielmo tornò a casa dopo aver cercato invano in tutta la comitiva qualcuno a cui comunicare le proprie riflessioni.

Johann Wolfgang Goethe, La missione teatrale di Wilhelm Meister, 1777-1785

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