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Eros Scarpa è nato a Venezia nel 1961 e si presenta così: “Sono solito scrivere con lo pseudonimo di “Quel Tale Eros Scarpa”, ma la cosa non ha molta importanza visto che non ho mai pubblicato nulla. Ho scritto un paio di romanzi, alcune poesie e sto cercando di ultimare un ventennale romanzo picaresco e la sceneggiatura di un film satirico. Amo il circo in quanto “attività che desta meraviglia”, perché sono sempre meno le cose che riescono a procurarmene”. Il suo racconto s’intitola Il sasso nello stagno.

Il sasso nello stagno

Prologo
Egli viveva certo.
In altre parole, egli viveva sicuro delle proprie certezze, e riusciva a cullarsi nella convinzione delle proprie fortune.
La morte, che pure sarebbe sopraggiunta, era cosa che riguardava il domani, dunque l’oggi gli appariva immensamente tranquillizzante.
Per niente scosso dalle notizie delle infinite guerre locali che insanguinavano vari luoghi del mondo in quella fine di secolo, egli provava esattamente la superba calma e la rilassata superiorità di un baronetto dell’Inghilterra vittoriana, di un intellettuale da caffè di prima del novecentotredici, di un fattore delle Alpi svizzere sempre.
L’accanito ateismo che era andato coltivandosi nell’animo eliminava la possibilità di rinascere, e perciò stesso di rinascere male, cosa che non si sarebbe perdonato.
La malattia del padre, anche così crudele e senza speranza, avrebbe riguardato sempre il domani o il doman l’altro, facendolo trastullare in un oggi inossidabile.
Nulla, nel presente, era avvisaglia di un malessere o di una pena futura.
Persino le persistenti emicranie non riuscivano a far parte delle sue previsioni più di quanto venissero relegate nei suoi ricordi.
Un meraviglioso ed eterno presente, così scevro dalla preoccupazione di far soldi che parevano bastare sempre, gli assicuravano un privilegio assai raro, tra gli uomini.
Le insoddisfazioni e le angosce della sua epoca nella sua parte di mondo lo facevano sorridere.
Egli godeva dei piccoli piaceri di ogni minuto proprio perché ne aveva sempre goduto, e non il contrario.
Mangiare era infinitamente saziante poiché egli aveva sempre avuto cibo a sazietà, giacchè le privazioni gli avrebbero introdotto sconosciute ansie da accumulo.
Nessuna scarsezza avrebbe rinforzato il suo personale piacere dell’abbondanza, ne’ avrebbe scalfito il suo marmoreo intelletto, che si sarebbe liso o rovinato se esposto alla preoccupazione di sopravvivere, come un vestito della festa indossato per portare a termine lavori pesanti di officina.
Quanto al progresso dell’Umanità, quest’ultimo era solo una strada su di una mappa.
Se ne poteva intuire la direzione futura rivolgendo un istante lo sguardo al passato, se ne poteva tracciare il cammino percorso in passato anche volgendo un brevissimo sguardo a dove si sarebbe diretto in futuro.
Passato e futuro erano quindi solo ancelle del suo presente.
E dunque, così privata di un divenire rischioso, la sua vita era tutta in un essere comodo ma noioso, perché quello che stava apprendendo con le letture, seppure interessante, dava ancora troppo poco gusto a un esistenza.
Per ciò si era abituato a camminare a testa bassa.
La testa alta, voi comprenderete, voleva dire essere disposti a riconoscere un fatto, un evento o anche solamente un’immagine che potesse fuorviarlo.
Egli quindi camminava non alzando la testa e fissando sempre il suolo.
Chi ve ne è abituato sa bene che la tecnica per farlo senza incocciare in altri passanti magari altrettanto distratti è quella di sfruttare i margini del campo visivo dell’occhio.
Ai lati del nostro visus si individuano sufficientemente bene, anche se con un minimo di indeterminatezza, figure o cose cui si deve prestare attenzione.
Se ci pensate è l’unica ragione per la quale coloro che camminano guardando terra non sbattono continuamente in qualcosa.
Si era allenato a questa tecnica da anni di passeggiate suolo-miranti, proprio per questo la sua sorpresa fu massima quando urtò qualcuno durante la sua passeggiata mattutina.
Non era stato un incoccio troppo pesante, ma nemmeno tanto lieve da non obbligarlo a chiedere scusa.
“Oh , mi scusi tanto, accidenti … Mi dispiace …” e aveva alzato gli occhi solo allora.
Una ragazza di età indefinita, con uno sguardo magnetico e vestita troppo improbabilmente per non definirsi in costume, stava affiggendo dei manifesti a una vetrina.
“Non si preoccupi , non è niente ” rispose lei, con una voce meravigliosa.
“Non è niente …” ripetè lei, raccogliendo i manifesti che gli erano cascati di mano, quasi a volerlo distogliere da quella fissità che pareva originata da grande imbarazzo.
“La .. la … posso aiutare?” riuscì a dir lui, un poco balbettando.
“No… non si preoccupi, guardi … li ho già tutti raccolti ” rispose la ragazza con una voce sempre più suadente.
“Non so come ho fatto a venirle addosso, sa … io sono spesso con la testa sulle nuvole” disse, sorprendendo se stesso per il fatto che stava parlando con qualcuno e non ve ne era la necessità.
“Così … così viene il circo in città?” chiese egli con un fare colloquiale, che gli era assai poco dimestico.
“Si . Siamo qui la prossima settimana, per sei giorni … venga a vederci” disse la ragazza, congedandosi.
Siccome era d’autunno, le foglie spinte dal vento lo sorpassavano.
Egli aveva rallentato il passo per ragioni non chiare, e che gli facevan lo stesso scherzo a un auto di un freno a mano tirato.

Parte Seconda
I piaceri e le emozioni sono come i rumori.
Egli, che era uomo raffinato ed uso ad un costume epicureo nel vero senso del termine, gustava attentamente ogni bicchiere di vino, ogni singola cucchiaiata di zuppa, ogni boccone delle leccornie che era abituato a prepararsi.
Si trattava di piaceri raffinati, per apprezzare i quali bisogna educare se stessi a farlo.
Ma il piccolo piacere di una forchettata di risotto, o la sottile emozione di un felice accostamento di uno stracotto con un grande rosso era stati coperti da un emozione più forte.
Il ricordo di quella voce e di quegli occhi.
Mangiava distrattamente, e dunque rinunciando ai piaceri piccoli e alle emozioni tenui, cosi assordati i primi e sovrastate le seconde da quelle poche parole scambiate in strada qualche mattina prima.
Perché aveva un pensiero fisso.
Stava attendendo quel circo come da piccolo aveva atteso l’uscita in edicola della sua serie preferita di fumetti di cui , una volta comperato l’albo, annusava a fondo l’odore della carta e dell’inchiostro, un piacere senza pari.
Era uscito a riguardarsi i manifesti, cercando di immaginare di che spettacolo si sarebbe trattato.
Si recò persino in sopralluogo sullo spiazzo che avrebbe ospitato il tendone.
Era dunque rimasto a fissare alcuni giovanotti ben piantati che predisponevano il piazzale, e sistemavano alcuni degli attrezzi da utilizzare al momento dell’innalzamento della tensiostruttura.
Costoro parvero infastiditi da quel passante impalato lì.
Vabbene la curiosità, ma costui pareva esagerare.
Se ne andò solo quando anch’essi se ne andarono, provocando loro il sospetto di non essere un pensionato perditempo.
La Domenica lo rividero, e per un momento circolò l’idea che un funzionario zelante del Comune o dell’Ufficio Igiene avrebbe sicuramente rotto le scatole, nonostante il circo avesse tutti i permessi, i nulla-osta, le licenze e le marche da bollo in regola.
L’incantatore di serpenti, che quel giorno non lavorava , si fece avanti .
“Salve , … posso fare qualcosa per aiutarla ?”
Il significato in codice era: per favore, ci spieghi perché e qui e poi, se possibile, se ne vada che abbiamo da fare.
“Oh no , .. non si preoccupi stavo solo guardando, a me piace talmente il circo … e sono anni ormai che non ho occasione …” rispose egli rassicurante.
“Quand’è così, tenga questi …!” e l’incantatore gli allungò due biglietti omaggio per lo spettacolo di quella settimana.
“Troppo.. troppo gentile ..” rispose, osservando il disegno sui biglietti, che era lo stesso di quel manifesto affisso dalla ragazza misteriosa, e questo immediatamente lo riportò a lei.
Ripassando nel tardo pomeriggio di Domenica egli non vide ancora nulla, e fu contrariato dalla deduzione che il Lunedì non si sarebbe tenuto lo spettacolo, perché l’intero giorno sarebbe occorso per innalzare il tendone.
Questo ritardava la probabilità di rivedere la ragazza, a cui pensava incessantemente.
Il Lunedì, oramai, era diventato una presenza accettata dai circensi, che stavano cominciando ad arrivare alla spicciolata.
Parte della carovana era ancora in viaggio, ma il più dei mezzi erano già nel piazzale, e come tante formichine organizzate, si erano disposti secondo un allocazione ottimale e studiata negli anni, che alla gente comune pare erroneamente casuale.
Il circo era così, una società organizzata di imenotteri che viveva una vita collettiva.
La gente fraintende la facilità degli esercizi e dei numeri di attrazione.
Tutto sembra semplice, ma è il risultato di un gioco di equilibrio perfetto,di una sincronia sorprendente, ottenuta con generazioni di lavoro.
In un mondo di registi televisivi approssimati, di coreografi dilettanti e di improvvisate show-girl, il mondo del circo gli pareva il depositario di un antico e dimenticato modo di far bene le cose, invece di farle alla carlona.
L’ansia di rivedere la ragazza era superiore al timore di risultare inopportunamente molesto, e fece sì che egli si avvicinasse ancora un poco, fino al margine delle transenne.
Era colà da pochi minuti a guardare in giro quando, voltandosi da una parte, si trovò faccia a faccia con una gigantesca foca.
Era Berta, un animale grande per la sua specie, che ritto arrivava ai due metri, e che gli si era presentata faccia a faccia, al di là della transenna. Si era messa in piglio di discussione, come se egli e l’animale fossero stati due dirimpettai che dovevano parlare del portierato.
Sorpreso che fu, egli trovò naturale di non ritrarsi, e guardò Berta negli occhi, sorridendo un poco.
L’animale sembrò ricambiare, per quanto non si possa sapere di come una foca ride.
Poi si congedò, lasciandolo interdetto.
Era riuscito a capire che anche Berta gli piaceva, e non di una semplice simpatia.
Il contorsionista accorse a rassicurarlo.
“…Ops , si è spaventato..? Guardi che è inoffensiva…” disse.
Era un ragazzo giovane ed effeminato, bello nel viso come raramente si poteva vedere.
Anche lui cominciava a piacergli, come la ragazza e la foca, e tutto cominciava ad essere molto strano.
Quella mattina vide foche, pellicani, serpenti, orsi di varie dimensioni, cavalli e cammelli, persino dei lama con dei mantelli sopra, e tutti i loro domatori.
Si rese conto che quello strano sentimento di invaghimento provato per la ragazza, il contorsionista e Berta interveniva anche per gli altri.
Per una trapezista che passò in costume, egli ebbe persino un mancamento che non venne notato.
Se ne andò a letto di buon ora, con un buon libro appoggiato al ventre, con un acqua minerale di buona qualità che di tanto in tanto gli umettava la gola.

Parte Terza
Il Martedì mattina era soleggiato, e la sua colazione fu degna di un albergo rinomato.
Nella sua dispensa c’era tutto, perché quello che non c’era avrebbe potuto dar luogo ad un rimpianto, che in queste piccole questioni egli aveva deciso di non avere.
Mangiò solo un poco distratto, re-imponendo a se stesso la sacralità del boccone e del sorso, che in quel fine settimana precedente aveva trascurato a favore di un mondo fantastico in cui abitavano fate e folletti sconosciuti.
In pochi minuti era ritornato al piazzale, che era stranamente calmo.
Evidentemente tutti erano nelle loro caravan, ed egli arguì che si stavano riposando per dar luogo allo spettacolo pomeridiano.
Nei manifesti che tappezzavano la sommaria recinzione del piazzale era indicato a chiare lettere che il primo spettacolo sarebbe stato quello odierno alle cinque della sera, seguito da un altro alle otto.
Si avvicinò fino ad entrare nel recinto, che aveva un invito transennato che dirigeva alle casse, dove i circensi erano usi fare prevendita di biglietti e di oggettistica.
Timidamente salì i gradini che conducevano alla cassa, sistemata su un rimorchio stradale, perfettamente agghindata allo scopo, con delle vetrinette da fare invidia ad un ufficio postale, ed un dispositivo che amplificava la voce del cassiere.
“Buongiorno , vorrei un biglietto per …” ma la voce gli si era bloccata in gola, quasi ricacciata giù nella trachea.
Alla cassa c’era quel bellissimo paio di occhi di cui egli era andato vagheggiando tutta la settimana, ed il sorriso pareva, se possibile, ancora più gradevole e solare.
“Ma guarda chi ci è venuto a trovare !” disse la ragazza con quella sua voce che, amplificata, rivelava tutto il fascino nascosto del suo modo di pronunciare le sillabe.
“Buongiorno a lei “ disse lei continuando “ … si è dunque deciso a venire al circo … Ma lo sa che lei, se si tolgono una ventina di biglietti che abbiamo venduto ieri sera tardi, è il nostro primo cliente ?” e gli sorrise radiosa, causandogli una specie di blocco motorio che grossomodo richiamava quello sperimentato al loro primo incontro.
“Mi .. mi fa piacere …” disse “Signorina … scusi … co…cosa c’è nello spettacolo ..?”
“Oh … vedrà … non resterà deluso , anzi .. ci sono i numeri con gli animali , poi una bella coppia al trapezio …,i giocolieri, l’uomo snodato, i serpenti … poi c’è una specie di numero acquatico che è una sorpresa … non glielo racconto perché è un peccato, le rovino la sorpresa …”
Egli si era dimenticato della prima parte della spiegazione ancor prima di aver finito di ascoltarne il termine, perché era già quasi innamorato di tutte quelle persone, e gran parte non le aveva ancora viste.
Era come trovarsi nel procinto di una cavalcata su un animale selvaggio e non addomesticato, che si sarebbe dovuta evitare fino al trovarsi in groppa.
Dopo, non si sarebbe potuto e voluto scendere prima di esserne disarcionati.
Si chiamava Zora.
Così disse almeno di chiamarsi, ma poteva sembrare un nome d’arte, una consuetudine nell’ambiente circense.
Era nata a Trieste, una città malinconica e bella, e perciò sembrò strano che ella fosse il simbolo stesso dell’allegria.
Disse che i genitori erano circensi, i nonni lo erano stati, e persino la bisnonna aveva lavorato sulle piste, in qualche antico spettacolo.
Egli la ascoltava con attenzione statuaria, forse perché aveva rinunciato a capire il significato delle parole, e si accontentò di sentire il suono.
Il suono della sua voce era infatti un canto delle sirene, almeno per lui.
Non ricordava un’impiegata alla cassa , ma nemmeno un’infermiera, una banconiera, una commercialista, una presentatrice televisiva, una farmacista, una operatrice estetica, un ministro una responsabile delle relazioni esterne, una addetto-stampa, una geometra, un’indossatrice, una sarta, una personal trainer, una ballerina di fila, una soprano, una autista di corriera, una presidente di facoltà, un pubblico ministero, un’istitutrice, una psicologa infantile, una capo d’impresa, una inserviente al fast food, una lavapiatti, un premio nobel per la medicina, una ricercatrice, una anatomopatologa, una venditrice ambulante, un primo violino in qualche grande orchestra sinfonica che avesse una simile voce.
Non si ricordava di nulla di simile.
E i suoi occhi poteva giudicarli come estinti.
Un carattere genetico che si era perso nella marea dell’evoluzione, e non si era più ripresentato fino a quel momento.
Apparve una signora con due bambini, che voleva i biglietti del circo.
Egli traslò lateralmente solo di mezzo metro, consentendo alla donna di comprare quei tagliandi d’entrata, ma non si era mosso di più, e Zora se ne accorse divertita.
“Ma che fa lì impalato , si riavvicini …” e gli sorrise come sapeva fare lei.
“ Verrò …. Al secondo spettacolo … al secondo spettacolo ” disse in una quasi-trance, ammaliato da un universo sconosciuto di emozioni che gli producevano un inedito pompaggio di qualche ghiandola surrenale.
“A più tardi allora ” Disse Zora, costringendolo ad andarsene come quando ad un discorso pubblico con il microfono non si ha più proprio nulla da dire ancora.
Egli uscì di nuovo sul vialone d’immissione del circo, e si guardò alle spalle.
Vedeva il tendone ormai teso, le gabbie carovanate in bell’ordine giustapposte fra il tendone stesso e gli altri mezzi.
Era oramai chiaro che era innamorato, ma di chi?
Chiunque stesse passando nei pressi, un aitante domatore, la giocoliera, la ragazza dei cavalli, il bel ragazzo che faceva un numero coi pattini, tutti gli stavano procurando una folgorazione che in altre circostanze lo avrebbe spaventato, ma che riuscì a considerare benvenuta.
Rimanendo in piedi poco di fuori all’ingresso fino all’imminenza del primo spettacolo, ebbe una prospettiva sufficiente a procurargli una sorta di visione.
Ora gli sembrava di vedere chiaro di che cosa si trattava: c’era un cordone di transenne che collegava quasi qualsiasi cosa con qualcos’altro, e i circensi, come piccole molecole, percorrevano svelti ma ordinati ognuno di questi tubuli immaginari.
Il tendone sembrava (forse che si, forse che no) aumentare un poco di ampiezza e sgonfiarsi di lì a poco, ritmicamente, come un grande mantice o il respiro di un immenso polmone, e i suoi bronchi erano gli ingressi principali.
Lo stomaco di tutto gli pareva essere il grande ingresso ai camerini retrostanti, dove i circensi entravano normali e ne uscivano truccati e travestiti per il loro numero.
C’era persino un area di disbrigo per effettuare le necessarie pulizie al manto degli animali più grossi : quello era il rene , nel suo immaginario.
Il cervello, facile dirlo, era il mezzo dei padroni del circo, i genitori di Zora.
Ma il cuore, il centro del sistema cardiovascolare, non gli riuscì di individuarlo, ma c’era senz’altro.
Intanto, dal tendone, fuoriuscivano le prime note a grancassa di una specie di marcetta, che era la sigla d’inizio dello spettacolo.
Poi di nuovo la musica e l’intervallare di vari rumori e scoppi, con la numerosa folla che si faceva udire distintamente anche all’esterno.
Non vi erano più dubbi che quello fosse un immenso animale.

Epilogo
Quando si trattò di entrare nelle fauci dell’immenso animale, egli ebbe un poco di ritrosia.
Non si era praticamente mosso da un luogo poco fuori di là, e l’entrata del tendone e la vista ancora non completa dell’interno, con tutte quelle seggiole e quelle transenne sistemate attorno alla pista circolare, gli avevano richiamato l’immagine di un enorme bocca, con i denti e tutto il resto , e il culmine del tendone era un ampio palato.
L’ugola, a volerla cercare, si sarebbe senza dubbio trovata nel piccolo soppalco che ospitava i trapezisti, e che se ne stava in alto a dominare tutto.
Egli entrò facendo parte di una ressa che si spingeva per poter occupare i posti migliori, ma la cosa non lo disturbò. Non si mise a sedere subito, forse perché desiderava usare qualche gentilezza ai bambini che, seduti dietro le prime file, rischiano di non vedere bene.
Poi pensò che gli avrebbe garbato di assistere allo spettacolo in piedi, come supponeva che dovessero fare le persone del circo che collaboravano come inservienti.
Quella posizione gli faceva sembrare di essere parte del circo, poteva persino fingere di essere uno dei circensi come fece, quando una signora anziana, vedendolo sul limitare dell’androne d’ingresso, gli domandò se poteva procurarle una seggiola in buona posizione.
Egli la prese sottobraccio e la accompagnò ad un posto in prima fila che era rimasto vuoto, e vedendolo, le persone circostanti gli attribuirono lo status di responsabile del pubblico in sala.
Senza nemmeno sforzarsi troppo era già parte del circo, di quella immensa famiglia che forse nemmeno l’avrebbe rifiutato, una volta appreso che egli se ne era immaginato come membro.
Fino a che non fu entrato l’ultimo, egli si comportò come un perfetto direttore di sala, e non avrebbe potuto far meglio per accontentare queruli bambini, mamme preoccupate ed adolescenti rumorosi e scomposti.
Ciò che non potè fare fu vendere popcorn, merendine, zucchero filato e bibite agli spettatori, ma soltanto perché al bar c’era una dei titolari, la mamma di Zora.
Nessuno può dubitare che, in circostanze differenti, avrebbe servito con perizia seduto dentro il casottino adibito a vendita di generi di ristoro.
Zora, fece il suo numero al trapezio, e quando lo faceva, diventava di tutti.
Non era di qualcuno in particolare, e quindi anche egli la sentì sua, tanta era la grazia che emanava quel corpo sinuoso ed atletico, e l’armonia delle sue giravolte a mezz’aria.
Non aveva applaudito prima, ma ora si spellò le mani, provocando il persistere dell’applauso ben oltre la normalità.
Poi lo spettacolo si avviò al termine, e tutti se ne uscirono disciplinati.
Gli costò, ad imboccare la via di casa.
Non l’aveva fatto ne’ volentieri e nemmeno di fretta come gli era consueto.
Arrivato che fu, usò lo stratagemma di non togliersi le scarpe, ed udire almeno i rimbombi sul pavimento dell’anima metallica del suoi tacchi che potessero, insieme a lui, fingere una conversazione disimpegnata.
Fin troppo.
I suoi tacchi non erano abili conversatori, ma solo volonterosi. Essi ce la mettevano tutta a rimbombare per dir qualcosa, ma non se ne poteva cavare che una conversazione da pianerottolo:
“Come sta ? …”
“Ha finalmente deciso di cambiare le tapparelle…?”
“Venga a trovarci che le faccio assaggiare il liquore d’erbe di mio suocero …”
“Però , … ha visto che disastro quelle inondazioni …”.
Ma si sentiva vuoto come ci succede quando siamo costretti a separarci da qualcuno di cui ci siamo appena perdutamente innamorati.
Fu così che il mattino dopo egli si ripresentò in cassa e volle comperare altri biglietti per lo spettacolo successivo, ed altri biglietti per quello dopo ancora.
Zora gliene diede due per ogni spettacolo, divertita dalle stranezze di quel tipo così singolare, ma gli fece pagare solo una metà del prezzo.
Egli ringraziò e si apprestò a far da usciere nei successivi due spettacoli di quel giorno, un Mercoledì.
Controllò con dovizia i biglietti e fece accomodare tutte le signore con bimbi piccoli, ed era particolarmente premuroso con gli anziani.
Se la trovava, quando la rinveniva, usava la scopettona di saggina per spazzare un poco il vialetto d’entrata, e lo faceva con tale naturalezza che nessuno dei circensi mise mai in dubbio che egli era un nuovo inserviente assunto da poco.
Come una donna che si prende cura di un uomo troppo più bello e attraente di lei, e sa già che accetterà ogni smacco e ogni dispiacere per stargli accanto.
E rivide Zora e gli altri artisti, fare cose difficili ma che gli stavano diventando bizzarramente familiari.
Vide una giocoliera tenere in aria sei palloni contemporaneamente con la spinta dei piedi, sdraiata su di un asse sospeso ad un metro da terra.
Il movimento delle sue gambe gli provocava un insperimentato brivido erotico.
Vide l’uomo camaleonte eseguire il suo numero di trasformismo, e pensò di aver capito come faceva, e anche lui , nello svestirsi, finì per piacergli fisicamente.
All’abbassarsi delle luci del tendone si vide costretto a congedarsi, ma per uno strano caso ancora nessuno aveva indagato su di lui e gli aveva chiesto alcunchè.
Era questa la sublime anarchia del circo.
Un uomo faceva le veci di bigliettaio e maschera e il circo lasciava fare.
C’era da credere che se si fosse presentato in pista a fare un numero, lo splendido senso di improvvisazione dei circensi avrebbe fatto sì che il numero cominciasse, chissà poi se solo per venir interrotto pochi secondi dopo.
Ma nemmeno un imbranato palese poteva essere sicuro di vedersi interrotto il cimento in pista, poiché poteva ben essere scambiato per un pagliaccio o un intrattenitore comico che stava occupando il cambio fra un numero ed il successivo.
Il circo, in fondo, non discrimina ne’ isola nessuno, ed è questa la sua umanità.
Fu così che invece di uscirsene subito rimase acquattato dietro una transenna, e si mise a giocherellare come la giocoliera con i piedi, a cercare di tenere in aria due palloni, per cominciare.
Li aveva raccattati nell’angolo di entrata principale.
Nella semioscurità del tendone ormai deserto e semibuio, egli si ritrovò a tenere in aria due palloni quasi subito con discreta maestria.
Non erano i sei della giocoliera, ma fu subito evidente che era assai portato per quei giochi di equilibrio e di abilità, ed in vita sua non li aveva mai provati prima, ma ci riusciva benino.
Quando poi, per vezzo, rifece lo stesso esercizio davanti ad una grande specchiera e terminatolo si alzò, vide se stesso come figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Celiso: cadde innamorato dell’immagine che aveva davanti agli occhi, senza che nessuna Artemide a ciò lo avesse obbligato.
Alla fine della settimana, non ostacolato da nessuno, era riuscito a salire su di un mezzo del circo e a rimanervi per tutto il tragitto che si ebbe per spostarsi in un’altra città.