di Massimo Locuratolo
Molti grandi attori comici possono a tutti gli effetti essere considerati dei clown, da Benigni a Totò fino all’esempio per eccellenza Charlie Chaplin. Ma spesso sono stati i clown a tentare la fortuna sul grande schermo. E se nella vecchia URSS era un’operazione dal successo sicuro (basti pensare a Popov
e Karandash), in Occidente l’esito non era sempre garantito. Ecco alcuni interessanti esempi raccontati da Massimo Locuratolo.
I Fratellini secondo Federico Fellini
I Lumière ispirano Fellini
La cinepresa, geniale invenzione dei fratelli Lumière, esisteva da appena cinque anni quando, il 30 settembre 1900, nel Nouveau Cirque di Parigi fu allestito un set per fissare su pellicola Foottit e Chocolat – prima coppia clownesca della storia – mentre eseguivano Chaise en bascule, Le policeman e Guglielmo Tell. Alla manovella c’erano i Lumière in persona. Il making of è stato parzialmente ricostruito dal minuto 44:06 di Mister Chocolat, film del 2015 diretto da Roschdy Zem, mentre il girato originale di Chaise en bascule è stato inserito prima dei titoli di coda. Ad esso si era ispirato Fellini per ambientare l’ultima, fatale notte terrena (1911) di Jimmy Guyon. Per I Clowns (1970) aveva immaginato la fuga da un ospedale di colui che dal 1878, interpretando Gugusse all’Hippodrome au Pont de l’Alma per una dozzina di anni, aveva dato forma alla prima, compiuta figura clownesca. Guyon, sapendo che Foottit e Chocolat lavoravano al Nouveau Cirque, non aveva resistito. Voleva vederli in azione, e, nella ricostruzione felliniana, applaudiva proprio la Chaise en bascule. Sebbene il regista romagnolo abbia mantenuto l’impostazione di base dell’entrée (gli scherzi tra due clown con una sedia), ne aveva ridisegnato la sceneggiatura. Innanzitutto, rendendola musicale (nella versione originale i protagonisti non avevano strumenti, mentre qui Foottit maneggiava un banjo e Chocolat suonava la tromba), e creando una serie di conflitti che nel filmato originario non c’erano. Per la colonna sonora Nino Rota aveva scelto, rimaneggiandolo, la Nonsense song composta da Charlie Chaplin per il prefinale di Tempi moderni (1936).
Esiste una filmografia, seppur non vastissima, anche del trio Fratellini. Nel 1924 François aveva ricoperto un ruolo ne La Voyante, sceneggiato da Sacha Guitry e interpretato da Sarah Bernhardt. Nello stesso anno aveva partecipato a Rêves de clowns – regia di René Hervoin e Madame Vigier. Ma la pellicola per cui François e Albert (bianco e augusto) vengono ricordati è Ritratto di un assassino (1949), con Maria Montez, Erich von Stroheim, Arletty e Pierre Brasseur. Vi interpretavano sé stessi, truccati e abbigliati come in pista.
Grock. Senza scherzi!
Come vedremo da qui in poi, l’ingaggio di un clown circense per farne il protagonista di un film si risolveva, sovente, nella celebrazione della sua fama. È stato il caso di Grock. Nel 1926 il regista Jean Kenn aveva realizzato Grock – son premier film. All’epoca Adrien Wettach era già un beniamino delle music-hall europee, dopo aver lavorato in pista, sino al 1913, con Antonet. Vi interpretava Céleste Noménoé, un comico di provincia che si recava a Parigi per incassare un’eredità. Una volta giuntovi, mentre cercava di decifrare i misteri contenuti nella mappa cittadina, era rimasto vittima di due loschi individui i quali, distraendolo, gli avevano rubato la valigia.
A quel punto Wettach/Céleste, ciondolante su un marciapiede e intento a considerare le differenze fra l’abbigliamento delle parigine e quello delle donne di campagna, veniva notato dal regista Allary, seduto al tavolino esterno di un bistrot, il quale lo ingaggiava per un film a cui mancava qualcuno che interpretasse il ruolo dell’eunuco (…!).
Dopo aver sostenuto un provino di fronte ai responsabili di un’agenzia teatrale, durante il quale Wettach aveva eseguito il suo leggendario repertorio di smorfie, iniziava a lavorare nelle music-hall col nome, e la maschera, di Grock. Raggiunto il successo, si sposava. Al principio del film c’è una scena in cui i boulevard parigini, immersi nella notte, erano costellati da enormi pannelli luminosi che annunciavano “Grock au Palace” – il teatro in cui avrebbe tenuto lunghe, trionfali stagioni.
Il cortometraggio continuava con la sua iconica entrata in scena – sedia in una mano e valigione nell’altra – a cui faceva seguito la routine del violino in miniatura. Dopodiché estraeva dal valigione un rotolo di carta e lo svolgeva. Vi erano disegnati sopra i titoli di testa. Un bel film muto, con Wettach in gran spolvero pure in borghese.
Ma la percezione è quella di una sensazionale operazione di marketing, seppur ciò non ne limiti il valore. Anzi: Grock – son premier film andrebbe studiato come il primo, preziosissimo documento visivo del suo rivoluzionario linguaggio clownesco.
Cinque anni dopo il cinema era diventato sonoro. Wettach non seppe sottrarsi alla tentazione di produrre, e interpretare, una delle prime pellicole europee con musica e dialoghi. Nacque così, diretto dal prolifico Carl Boese, Grock clown de génie (titolo della versione francese).
Era un mélo, realizzato principalmente nella villa imperiese di Wettach. La sezione più interessante è quella in cui lui, tornato in scena dopo una delusione amorosa, eseguiva gran parte del suo spettacolo: circa 43 minuti. Altro documento fondamentale per analizzarne l’originalità e il timing micidiale, col quale riusciva a rendere perfetto qualsiasi effetto comico. Nel 1931 non esisteva ancora il doppiaggio. Le sequenze parlate, pertanto, erano state rigirate da lui con Max Von Embden in svariate lingue, a seconda se le copie erano destinate al mercato tedesco, italiano, inglese, francese… Un tour de force necessario, dal momento che Grock era una famosa, e richiestissima, vedette internazionale, e il desiderio di farsi ammirare anche al cinematografo era irresistibile.
A quasi settant’anni lo ritroviamo in un film di produzione francese, diretto da Pierre Billon: Au revoir Mr. Grock (1949). Il più autobiografico dei tre. Spunto di partenza: il racconto della sua vita a un gruppo di bambini svizzeri. Con l’assetto di un nonno bonario e comprensivo, Wettach rivelava loro la scoperta del circo e la passione per gli strumenti eccentrici quando aveva dieci anni, incoraggiata dal padre – orologiaio, acrobata e albergatore; i successi ottenuti con Antonet sulle migliori piste internazionali; e la straordinaria carriera nei teatri come primo nome in locandina. La sequenza del sodalizio con Antonet è molto sostanziosa. Con Maiss, il suo ultimo partner di scena nel ruolo del bianco, venivano ricostruite alcune entrée, tra le quali un antico cavallo di battaglia: Rubinstein e Kubelik – parodia dell’illustre violinista classico (Maiss) e del suo pianista. Un gran bel pezzo di storia del clown. Tristan Rémy di lui aveva scritto: “Non fa le smorfie, procede per insinuazione, persuasione, per logica”. E Pascal Jacob ne aveva sottolineato il gioco sottile, prossimo a quello dell’attore teatrale. Due lauree honoris causa.
La perfezione del gesto
Rhum (Enrico Sprocani) è stato un clown di sguardo ed espressione. Tenendo d’occhio il palcoscenico, lui che era nato in pista, praticava uno stile rigoroso, basato sulla definizione dei movimenti e sull’esigenza di provare gli effetti sino alla perfezione – sia nella preparazione dell’entrée che in base alle reazioni del pubblico.
Nei primi anni Trenta, sempre in Francia, stava scaldando i motori un altro perfezionista del gesto, il quale non recitava nei circhi o in teatro, né lo avrebbe mai fatto, ma che dal 1928 eseguiva le sue caricaturali parodie mimate (che fossero quelle di atleti impegnati in svariati sport o quelle della eterogenea umanità che transitava nell’atrio di una stazione ferroviaria) negli spogliatoi, nel bus delle trasferte, a bordo campo prima della partita o durante le cene a fine match del Racing Club de France, una squadra di rugby semiprofessionista della quale faceva parte come riserva, allenata da un fine letterato: Alfred Sauvy. Jacques Tatischeff, questo il nome del mimo longilineo e allampanato, si esibiva per il puro gusto del divertimento. Con Sauvy aveva sistemato entro una struttura solidamente progettata le sue caricature, e dal 1930 al 1934 le proponeva annualmente, per due sere consecutive a scopo benefico, nella Revue sportive, messa in scena assieme a un drappello di compagni di squadra alquanto buontemponi nei ristoranti delle varie città dove i rugbisti si recavano dopo aver giocato.
Nel 1934 Sauvy e Tatischeff scrissero il soggetto per un cortometraggio sull’ambiente e sui comportamenti degli sportivi. Lo intitolarono On demande une brute (un comico in disgrazia affrontava un boxeur e riusciva a evitarne i pugni grazie all’agilità dei suoi spostamenti nello spazio), trovarono un finanziatore nell’ambiente del music-hall e reclutarono Rhum – a quell’epoca grande attrazione del Circo Medrano – per il ruolo di protagonista.
Col regista, il ventenne René Clément, i due soci trascorsero mesi a sceneggiare la storia e gli effetti comici. Per ridurre il budget di lavorazione (il film fu girato praticamente in due giorni) vennero effettuate lunghe prove con amici e attori secondari, e per stabilire posizione delle luci e angolazioni di ripresa furono realizzati i modellini delle ambientazioni (Clément aveva studiato architettura) nei quali venivano spostati dei pupazzetti. Tale metodo di lavoro ebbe in Tatischeff e Rhum due entusiasti sostenitori. Ma per valorizzare al massimo gesti ed espressioni del celebre protagonista la storia di partenza fu talmente ridotta all’osso che Sauvy non vi si riconobbe e si dissociò dalla produzione.
In questo turbinio di idee, scrittura, preproduzione e di sistemazione delle soluzioni visive Jacques Tatischeff, ancora indeciso su che cosa fare da grande, ma irrimediabilmente innamorato del progetto e del fatto di poter lavorare con Rhum, decise di rinominarsi alla maniera clownesca. Divenne Tati.
L’anno seguente aveva un altro soggetto pronto e la conferma che Rhum vi avrebbe preso parte. Il cortometraggio, diretto da Jacques Berr con la sua decisiva collaborazione, dato che ormai aveva acquisito fiducia nei propri mezzi come cineasta, riportava nei titoli di testa: Rhum de Medrano et Tati dans… Gai dimanche. Storia, cosceneggiatura, co-regia e interpretazione nelle mani di un solo responsabile. Esattamente ciò che Tati avrebbe fatto da grande.
Gai dimanche descriveva una strampalata gita domenicale fuoriporta, messa in piedi alla bella e meglio da due vagabondi per un gruppo eterogeneo di sprovveduti turisti, compiuta sia a piedi che utilizzando un asfittico pulmino scoperto. La cura dei caratteri dei singoli gitanti e delle gag (memorabili quelle in cui il pulmino rivelava il suo scassato stato di manutenzione, e del pranzo in campagna, in cui Rhum e Tati dovevano rattoppare, come meglio potevano, il divario tra la tirchieria dell’oste e l’appetito dei turisti) dimostrano quanta attenzione fosse stata dedicata alla sceneggiatura. Ne risulta un film comico più prossimo alla visione di Chaplin e Stan Laurel che alla slapstick comedy e in Francia questa era una novità.
Nel 1935 Rhum avrebbe pure interpretato il cortometraggio Frères brothers con Pierre Larquey; e in seguito, per la regia di Pablo Labor, A la manière de… con la compagnia di rivista del Concert Mayol al gran completo.
Naso rosso al cubo
José Andreu y Lasserre era figlio di una coppia di artisti ambulanti spagnoli. A due anni faceva parte della troupe famigliare e a venti aveva montato, coi fratelli, un’attrazione internazionale – trapezio basso, acrobazia ed equilibrismo sulla corda. Dal 1935, a 39 anni, fece ditta da solo. Nei due anni intercorsi fra l’abbandono della formazione famigliare (il suo carisma aveva oscurato il ruolo dei fratelli, scatenando incresciosi conflitti interni) e il debutto come clown aveva messo a punto un personaggio nuovo di zecca, caratterizzato da un naso posticcio a forma di cubo e da una lunga tunica rossa indossata sopra i pantaloni. In breve, Charlie Rivel – questo il nome del suo clown dal carattere romantico – acquisì una fama enorme, sia in Spagna che nel resto d’Europa. È stata una delle attrazioni comiche più forti nei circhi e nelle music-hall, al medesimo livello di Grock e dei Fratellini. José Andreu y Lasserre avrebbe sovente ricordato che i suoi mercati principali, oltre quello spagnolo, erano lo scandinavo e il tedesco. Il cuore hidalgo aveva scaldato il freddo temperamento nordico.
Nel 1942 la Tobis-Filmkunst GmbH di Berlino gli mise a disposizione i suoi mezzi, gli attori, gli sceneggiatori, il personale tecnico e il regista Wolfgang Staudte, per la produzione di Akrobat scho-o-o-n. Un bel film, ambientato nel mondo delle music-hall. Nella scena finale, truccato da Charlie Rivel, eseguiva il numero che anni prima, impersonando Chaplin, portava in giro coi fratelli. Una performance comico/musicale in cui dimostrava considerevoli abilità come equilibrista, trapezista e acrobata. Ma non era questa l’unica sorpresa del film. Nelle parti recitate in borghese, José Andreu y Lasserre rivelava spiccate doti di attore puro, in grado – anche con la sola mimica – di toccare corde emozionali profonde.
Nel 1944, all’apice della popolarità, profondamente addolorato dalle atrocità della Seconda Guerra Mondiale di cui era stato spettatore diretto in Germania, abbandonò le scene. Solo nel 1952, convinto da Grock, riprese a esibirsi. Avrebbe indossato il naso rosso a forma di cubo sino all’ultima apparizione in pista, avvenuta nel 1981 al Circo Krone di Monaco di Baviera. Aveva 84 anni. Una vita per divertire il pubblico concentrata in venticinque, spettacolari minuti. Praticamente, non si era mai concesso una vacanza. Il circo è un mestiere, e una passione, che ti assorbono completamente, senza farti sentire il bisogno di stare altrove.
Troppo forte
Era il 1959, e Achille Zavatta faceva il turista a La Napoule, presso Cannes, quando ricevette una telefonata da Claude Autant-Lara. Gli chiedeva di raggiungerlo a Parigi per ricoprire un ruolo nel film che stava girando in quel momento, La giumenta verde. Il valoroso Zavatta accettò, sebbene i tempi di lavorazione fossero stati decisi da un giorno all’altro. La vacanza si trasformò in un forsennato ponte aereo con decine di andate e ritorni tra la Costa Azzurra e la capitale, compiute su un preavviso di poche ore. Ma ne valeva la pena. Il cast era composto da autentici pezzi da novanta del cinema francese, come Yves Robert e Francis Blanche. Su tutti svettava la stella di Bourvil.
A Zavatta era stato affidato il personaggio del postino Déodat, una sorta di deus ex machina all’interno di una vicenda drammatica fitta di conflitti personali e insanabili rancori. Ma non aveva esperienza di recitazione di fronte alla cinepresa e, come ogni debuttante, caricava troppo gesti ed espressioni, abituato com’era a decenni di clownerie circense.
Bourvil lo prese sotto la sua ala protettiva. Gli insegnò come rimanere naturale ignorando l’obbiettivo. Per farla breve: la sua prestazione funzionò talmente bene che i giornalisti, recensendo il film, si sperticarono nel lodarne l’interpretazione. “Una rivelazione”… “È nato un grande attore”… “Il clown Zavatta, l’unico interprete fedele allo spirito di Marcel Aymé (autore del romanzo da cui era stata tratta la pellicola, ndr) domina dall’alto, e da lontano, un cast non equilibrato, apportando una dimensione poetica alla storia”. E via elogiando.
A Blanche Montel fu affidato il compito di gestirne la carriera cinematografica da quel momento in poi. Subito dopo la pubblicazione degli articoli il suo ufficio fu sommerso di richieste per le più disparate produzioni. Due settimane dopo, i richiedenti erano svaniti nel nulla. Zavatta svolse di persona delle indagini nell’ambiente del cinema francese. Incredibile, ma vero: scoprì che quella valanga di elogi, anziché apportare benefici alla sua nuova carriera, l’avevano stroncata sul nascere. Le grandi vedette dell’epoca non lo volevano nei loro film, temendo di finire relegate nell’ombra dalla sua ingombrante presenza artistica.
Articolo apparso sul decimo numero della rivista Circo – Circo e Cinema, inverno 2022