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Il circo non muore mai

di Maria Vittoria Vittori

Analizzando le vicende internazionali del Novecento, Maria Vittoria Vittori ricostruisce le storie di artisti e circhi che hanno affrontato con coraggio momenti difficili come le guerre mondiali e i totalitarismi. Ne esce un racconto suggestivo, tra cinema e letteratura, della capacità di resistenza e di rinascita che il circo ha sempre coltivato e che anche questa volta prevarrà sulla crisi.

Un’immagine da Freaks Out, l’atteso film di Gabriele Mainetti che si rifà ad un’estetica esplicitamente circense.

Quante vite ha il circo? Dobbiamo tenerle bene a mente, perché è di questo che abbiamo bisogno, in un periodo così difficile e complicato. È lo spettacolo dal vivo che ha subito i più gravi e pesanti contraccolpi dalla normativa entrata in vigore per contrastare e contenere la pandemia da coronavirus. Sono necessari aiuti concreti e consistenti, che si fanno attendere troppo: gli artisti devono essere messi in condizione di riprendere, non appena sarà possibile, la loro attività. Nessuna delle bufere storiche o epidemiologiche ha risparmiato il circo, da quando è nato, e sempre il circo si è risollevato, dando prova di una resilienza straordinaria, quando ancora il termine resilienza – sconosciuto in psicologia – si applicava ai metalli e ai materiali da costruzione. Qui si vuole ricordare qualcuna delle tante vite del circo, a partire dal secolo breve. Nel 1914, proprio alla vigilia della Prima guerra mondiale, venne messo in scena a Dresda, nel circo Sarrasani, lo spettacolo Europa in fiamme: una lucida analisi del clima prebellico, una premonizione o una sfida? Fatto sta che il conflitto spazzò via una quantità enorme di quei circhi che nella seconda metà dell’Ottocento avevano conosciuto un immenso successo di pubblico e critica. Sappiamo bene che i problemi per le nazioni non sarebbero finiti con i trattati di pace perché ad aggravare ulteriormente la situazione intervenne quella terribile epidemia di spagnola che tra il 1918 e il 1920 provocò milioni di decessi in tutto il mondo. Lentamente, con grande fatica, anche i circhi si ripresero e proprio nei primi anni Venti si formò un sistema di grandi tendoni europei.

Negli Stati Uniti, dove il circo era entrato a far parte dell’identità stessa del paese, gli effetti della crisi economica del 1929 colpirono ancora più duramente la realtà dei circhi itineranti. Il romanzo di Sara Gruen Acqua agli elefanti (2006) – poi portato con successo sugli schermi cinematografici – nasce dalla profonda suggestione esercitata dagli scatti di Edward J. Kelty, un fotografo originario del Colorado che negli anni Venti e Trenta viaggiava al seguito dei grandi circhi itineranti come Ringling Brothers, Barnum & Bailey, Hagenbeck-Wallace, Clyde Beatty e Cole Brothers. E documenta non solo le difficoltà economiche di un tendone itinerante, ma anche quell’uso smodato di jake, alcolico ad alta gradazione derivante dalla radice di zenzero, che negli anni del proibizionismo causò quindicimila casi di paralisi.

Nel clima minaccioso dell’ascesa del fascismo e del nazismo, i grandi artisti circensi continuarono ad esibirsi con grande successo: memorabile resta, per la filosofa Maria Zambrano, l’esibizione del “vecchio Grock quando faceva sorridere una moltitudine immensa di ogni età e classe sociale nel Circo Price, in una Madrid già angosciata, in quel periodo ancor più angoscioso della post-guerra che è la pre-guerra e di cui chissà perché, non si parla mai” (Il pagliaccio e la filosofia, 1953). E se è vero che alcuni circhi tedeschi furono favoriti dall’ascesa del nazismo, ce ne furono altri di opposizione che svolsero un ruolo importantissimo nella protezione degli artisti ebrei, come il circo diretto da Adolf Althoff che ospitò diversi circensi ebrei proteggendo la loro identità e sottraendoli alla cattura e alla deportazione nei campi di sterminio. Lo racconta Ingeborg Prior in Il clown e la cavallerizza (2000) attraverso la storia d’amore tra Peter Bento, clown nel circo Althoff e Irene Danner, della dinastia circense ebrea dei Lorch.

Davvero tanti e avvincenti i romanzi e gli spettacoli che raccontano la storia di artisti circensi all’interno delle vicende della Seconda guerra mondiale: Nelle mani di un Dio qualunque (2011) di Cristoforo Gorno è imperniato sulle peripezie del Circo Orion che “con l’arte degli inermi si prende la sua rivincita, mentre dal Tirreno all’Adriatico infuria la battaglia”, così come lo spettacolo Uomo calamita di Wu Ming 2 portato in scena lo scorso anno dal Circo El Grito è la storia di un circo clandestino durante la Seconda guerra mondiale.

Giacomo Costantini è l’Uomo Calamita nell’omonimo spettacolo
scritto da Wu Ming 2 (Foto del Circo El Grito).

Il clown di Athos Bigongiali ripercorre la trama del film, girato nel 1972 da Jerry Lewis, The day the clown cried, storia di un clown tedesco che venne spedito per punizione nei lager; Milena Magnani racconta nel Circo capovolto (2008, recentemente pubblicato dalla casa editrice Kurumuny) la storia di Branko, discendente di una famiglia nomade che aveva dato vita al Kek Cirkusz, successivamente deportata nei lager e sterminata; ed è la sua stessa esperienza di deportazione e di ritrovata libertà che Raymond Gurême, acrobata francese di etnia rom, riversa nelle pagine de Il piccolo acrobata (2015).

Materiale ancor oggi fertilissimo, se si considera che, tra le pellicole cinematografiche particolarmente attese troviamo Freaks Out, il nuovo film di Gabriele Mainetti – girato nel circo Rony Roller – che racconta le vicende di cinque artisti circensi nella Roma bombardata del 1943, e L’equilibrista con la stella che il regista Davide Campagna – diplomatosi all’Accademia del Circo di Verona – ha ambientato in Alto Adige tra l’emanazione delle leggi razziali e la Seconda guerra mondiale, scegliendo come protagonista una giovane acrobata ebrea che trova riparo nel circo. Anche da noi ci furono artisti e realtà circensi che aiutarono concretamente gli ebrei e gli oppositori politici: basti pensare ad Ercole Togni che mise in salvo numerosi ebrei e antifascisti e fece prigionieri, fino all’arrivo degli americani, i nazisti arroccati all’Hotel Plinius nei dintorni di Como. Certo, la guerra non risparmiò niente e nessuno: gli ultimi circhi stabili vennero rasi al suolo e, come se non bastassero i disastrosi effetti bellici, si verificarono anche catastrofici incendi come quello divampato nel 1944 a Hartford, nel Connecticut, durante lo spettacolo pomeridiano del Ringling Brothers Circus, che fece 168 vittime.

Torniamo al presente per un’ultima testimonianza, attualissima, della resilienza del circo: oggi in molti paesi dell’America Latina, come ci hanno mostrato nei loro scritti il cubano Eliseo Alberto, il peruviano Daniel Alarcón, i cileni Pedro Lemebel e Andrés Montero, nonché le diffuse e ricorrenti proteste popolari, il circo – e soprattutto quello di strada messo in scena da giovani acrobati, giocolieri e mimi – è simbolo di libertà e nucleo attivo di opposizione contro i regimi dittatoriali. Se è vero quello che spesso si dice, e cioè che esiste un lievito particolare nell’arte circense, allora dev’essere un lievito madre, di quelli destinati a rinnovarsi nel tempo.

Articolo apparso sul settimo numero della rivista Circo – Speciale pandemia del secondo semestre 2020

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