di Stefania Ciocca
Citando la figura del bambino che meravigliato fissa la pista di un circo non si richiama ciò che molti banalizzano con lʼespressione “stereotipo felliniano” ma si riporta una grande metafora che può essere letta come lo stupore davanti alla meraviglia del mondo in generale o della scoperta dellʼuniverso del circo in particolare.
Eʼ da qui che comincia la storia del fotografo italo americano Joe Oppedisano (Gioiosa Ionica 1954).
Come hai scoperto il circo?
Avevo cinque anni quando il circo è arrivato nella mia città. Allora non si faceva molta pubblicità e quindi il circo faceva una parata per le strade annunciando la sua presenza. Soltanto la parata mi aveva affascinato moltissimo e chiesi a mia madre di portarmi al circo. Mio padre era emigrato negli Stati Uniti, due anni dopo lo raggiungemmo anche noi a New York, ma nel frattempo mia madre si era trovata da sola con tre figli da gestire e di cui io ero il più grande, per cui non aveva tempo di portarmi allo spettacolo. Fu così che io e mio fratello ci andammo di nascosto infilandoci sotto al tendone e assistendo per la prima volta a quel mondo affascinante.
Poi è arrivato il trasferimento negli Usa e la scoperta della fotografia.
Si, a New York scoprii la fotografia da subito, avevo 8 anni quando iniziai a fotografare, naturalmente senza cognizione di causa! Mi avvicinai seriamente quando frequentai lʼuniversità: negli Usa i primi due anni di università hanno di obbligatorio solo quattro materie mentre gli altri studi li puoi scegliere liberamente e la mia scelta cadde su un corso di fotografia. Mi appassionai talmente tanto che a un anno dalla laurea, con gran rabbia dei miei genitori, lasciai lʼuniversità per frequentare la scuola di arti visuali dove seguii corsi per altri due anni. Mi avvicinai così anche alla fotografia pubblicitaria con la quale poi ho lavorato molto durante la mia carriera in giro per il mondo.
E come è avvenuto il secondo determinante incontro con il circo?
Alla fine degli anni ʼ90 a Milano si teneva una fiera di fotografia chiamata SICOF e mi chiesero di proporre un progetto da mettere in mostra. Avevo lo studio in Foro Bonaparte e vidi la pubblicità del Circo Americano (che pensavo fosse davvero americano!) e così contattai il loro ufficio stampa e spiegai che tipo di lavoro fotografico volevo fare, che di certo non era di backstage o di scena. Loro mi hanno presentato il ringmaster, Enrico “Ricky” Pilleri, e da lui ho iniziato poi a fotografare tutti quanti secondo questo stile che sino ad allora nessuno aveva usato.
Infatti, spiegaci la modalità fotografica che hai usato.
Le mie foto sono immagini di studio. Il backstage del circo è affascinante ma a me piace lavorare in studio perché il rapporto con il soggetto è diverso, è 1 a 1. Ho rappresentato i soggetti intenti nel loro numero, ho ritratto gli animali, ho ripreso i personaggi di quel mondo in posa davanti allʼobbiettivo, il tutto davanti ad un fondale dipinto, molto pittorico, realizzato da me.
E quindi hai fatto in modo che i circensi venissero in studio da te?
No! Con gli animali sarebbe stato molto difficile. Sono io che ho portato lo studio al circo. In base agli impegni dei Togni mi sono organizzato per stendere il fondale in mezzo alla pista, sistemare le luci e lʼattrezzatura e ritrarli lì nel loro mondo. Il soggetto pare essere isolato dal suo ambiente naturale, ma in realtà non è così, è ben inserito al suo interno, solo che chi guarda la foto non lo sa.
Comʼè stata la mostra?
La mostra organizzata a Milano per il SICOF è riuscita bene, vennero anche i membri del circo Togni, anche perché allora il Circo Americano rimaneva a Milano per il periodo invernale. Ricordo che della mostra scrisse un pezzo il Corriere della Sera, il giornalista Massimo Alberini mi invitò anche a casa sua dove mi mostrò unʼintera parete di libri di circo e di fotografie.
Hai fotografato altre famiglie oltre ai Togni?
Sì, gli Orfei e Casartelli del Circo Medrano. Dopo il lavoro fatto al Circo Americano è riuscito tutto più semplice, un poʼ perché avevo del materiale pronto da mostrare e un poʼ perché i circensi si conoscono tutti, il passaparola ha fatto molto. Un misto di fotografie delle tre famiglie poi è stato pubblicato sul libro Il circo, edito da Motta Editore e con la prefazione di Mario Verdone.
Sfogliando le pagine di quel libro ti viene in mente qualche aneddoto?
I più divertenti sono quelli che riguardano gli animali: io li fotografavo senza gabbie a dividerci, la tigre era lì davanti a me ma Flavio era davvero bravo nel gestire felini ed elefanti. Ricordo di aver chiesto a Pablo Noel, domatore di leoni, di rifare per me la posa della testa infilata nella bocca del leone. Lui mi ha guardato, si è levato la camicia e mi ha mostrato delle cicatrici lasciate dai felini dicendomi “Io rischio tutti i giorni in pista, per una foto forse è meglio di no!”. Oppure la foto del watusso: ho scatto circa mezzo rullo, poi il watusso si è voltato e andandosene via ha buttato giù fondale e tutto quanto.
Hai lavorato nella pubblicità, nella moda, in teatro. Sei più tornato al circo?
Si, ho voluto fare un altro lavoro sui Togni nel 2006, per chiudere un ciclo. Ho davvero moltissimo scattato sul circo.
Sono fotografie visibili o fanno parte di un tuo archivio privato?
No, di pubblicato cʼè solo quello che si vede sul libro e qualcosa sul mio sito. Ma lì pronto nel cassetto cʼè tutto lo scattato, mi piacerebbe realizzare un libro, unʼopera più ampia e completa dedicata al circo, mi servirebbe solo un editing e il progetto è pronto.
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