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di Alessandro Serena

La sala Interaction dell’Arena del Sole è gremita e in rispettoso silenzio. Sul palcoscenico si accendono poche luci ad illuminare una pista di circo tracciata da semplici tavolette di legno, un trapezio appeso al cielo dove è incastonata una ballerina con piume di struzzo ed un artista con il volto imbiancato dal trucco.
Il circo classico ha un vocabolario di segni talmente preciso e forte da permettere, con tre semplici riferimenti, di evocare subito un universo e farlo diventare quello che ospita uno spettacolo.
Un’atmosfera immediatamente riconoscibile, quanto meno in tutto l’occidente, e in qualsiasi contesto, anche in quello di Gender Bender, il festival internazionale che a Bologna presenta prodotti culturali contemporanei, legati ad inedite “rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale”. Una manifestazione che punta sulla cultura LGBT (lesbo, gay, bisessuali, trasgender) ma il cui bacino d’utenza è ovviamente più largo a giudicare dal numero di persone che popolano le sale dove si svolge l’evento, che offre cinema, danza, teatro, mostre, incontri, concerti e party in piena notte.
Giunta alla nona edizione la rassegna, promossa da Il Cassero (gay lesbian center), mostra “percorsi di senso inediti tra fenomeni culturali e comunicativi apparentemente lontani e contraddittori, indicando come sia possibile andare in maniera creativa oltre le norme e gli stereotipi del maschile e del femminile”. Lo fa con un palinsesto ben modulato e ricco di segni e di contenuti, disegnato dal direttore artistico Daniele Del Pozzo.
Il circo in questo ambito ci sta benone. Del resto i suoi legami con il mondo LGBT sono antichi, noti e mutualmente proficui. Per citarne alcuni è d’obbligo prima di tutto sottolineare che i due mondi hanno una sola regina, almeno in Italia: Moira Orfei, simbolo della pista ed icona gay per eccellenza. Poi basti ricordare che il tendone in viaggio è stato per anni uno dei luoghi in cui hanno riparato molti individui con un orientamento sessuale non convenzionale. Infatti al circo ognuno si trova a casa propria, non perché a seguito di molti freaks e quindi parte di una carovana di fenomeni della natura, ma perché nel vivere quotidiano l’anormalità diventa normalità. Nella stessa pista si alternano e si incontrano donne e uomini di diversi continenti, di diverso credo, di diverse idee politiche. Tutti diventano valore per la collettività, senza perdere l’orgoglio delle proprie idee. Su piccola scala è la realizzazione del sogno della civiltà occidentale. Interessante anche quanto accade per l’importanza data ai valori famigliari. Convivono le più diverse tipologie di nuclei famigliari. Grande spazio alle famiglie vaste e patriarcali, in un rimando forte alle comunità contadine, con matrimoni che spesso avvengono fra colleghi in un intreccio fiabesco di parentele. E allo stesso tempo ampio ventaglio di possibilità con modelli di famiglie arcobaleno all’avanguardia rispetto a qualsiasi nazione moderna. Il tutto vissuto non già in reciproca tolleranza, bensì in piena armonia.

Barbette
Inoltre in passato dei grandi interpreti del travesti sono stati delle stelle assolute del circo internazionale, fra tutti, o tutte, la bellissima Barbette “Reginetta americana dell’aria”, un raffinato travestito (nato Vander Clyde, 1902-1973) in possesso di un carisma, anche erotico, notevole. Si guadagnò l’attenzione di grandi artisti e uomini della cultura degli anni Venti e Trenta. Dal fotografo Man Ray, che le dedicò un portfolio di bellissime immagini, sino a Jean Cocteau, che lo ascrisse fra gli artisti “moderni” arrivando a dire: “Stravinskij, Auric, poeti e artisti vari, me incluso, non abbiamo mai visto un simile artista dai tempi di Nijinskij!” Venne ingaggiato per i più grandi circuiti del teatro di varietà e lavorò come creatore di numeri aerei per il mitico Barnum, per la Walt Disney e per Orson Welles. In Inghilterra le diedero il veto di esibirsi: la femminilità esibita non era solo una maschera di scena, ma un vero orientamento di gusti. Morì suicida, lasciando in questo mondo piume e lustrini per colorarlo un po’.
Più in generale il circo propone un modus vivendi alternativo e in questo sposa alla perfezione gli intenti di Gender Bender. Anzi è auspicabile che possa trovare ancora più spazio in futuro, anche se la proposta di quest’anno ispirata al circo ha avuto un ottimo esito. La compagnia Lost Dog (Regno Unito) ha presentato il duetto di teatro danza It Needs Horses (Ci vogliono cavalli), interpretato da Raquel Meseguer e Ben Duke. Uno spettacolo, come detto in apertura, che punta molto sulla forza evocativa del circo classico. Una donna su di un trapezio, un uomo con una bombetta ed il volto imbiancato dicono subito “Circo!” ed aprono la mente ed il cuore degli spettatori su decine di immagini che hanno la forza, non già banale degli stereotipi, ma ancestrale dei miti. Il fatto che le movenze dei due attori-ballerini siano volutamente sbilenche finisce per far parte del medesimo apparato segnico. Proprio su questo punta il breve frammento (in patria vincitore di premi importanti, meritatamente, viene da dire) costruendo con un niente (musiche e movimenti), un condensato di visioni che spazia dalle grandi arene anglosassoni ai guitti mediterranei de La Strada di Federico Fellini, con la richiesta di un obolo da lanciare dentro il cappello vuoto.
Poi, nel momento in cui la trapezista cade, il senso si sposta verso il rapporto di coppia, e l’arte circense diventa una metafora dell’amore impossibile fra un clown e una trapezista (simbologia del resto già affermata altrove). Per farla rialzare bisognerà fare leva su una sorta di danza erotica ironica ed autogenerata. Ma anche allora il rapporto fra comico e ballerina aerea rimarrà incrinato e la partenza di quest’ultima farà comprendere come l’abbandono possa fare più male di un salto mortale non riuscito. E che in un battito di ciglia (finte?) la farsa può diventare tragedia. Proprio come nel circo. Proprio come nella vita.