In un’intervista di qualche anno fa lei si è definito “collezionista di attimi, di dettagli, di particolari”. Anche questo significa essere clown?
Noi clown usiamo raccontare frammenti di storie, di personalità e questo in qualche modo crea un linguaggio particolare. Nel mio caso, dato che vengo da una famiglia di fotografi, a questo tipo di espressività si è unito anche il bisogno di raccontare per immagini, sovrapponendole, come accade in quei film nei quali ci si trova in luoghi strani, le realtà sfumano le une nelle altre e c’è una continua allusione al linguaggio dell’inconscio. Sia che mi occupi di teatro, o di circo, o di opera, lo faccio con lo stesso spirito, che è quello del clown. Credo che la clownerie sia, prima di tutto, un modo di raccontare la realtà cambiando ogni volta il punto di vista.
Leggendo il suo profilo biografico risaltano esperienze disparate: l’assistenza ai malati terminali di Calcutta, l’apprendistato da clown, l’obiezione al servizio militare, il Teatro della Carezza. Come si sono fuse, queste componenti, nella sua formazione?
Devo dire che la vita con me è stata particolarmente generosa perché mi ha permesso di fare incontri determinanti. Tutto è stato casuale, ma di una casualità certamente provocata. Mi sono messo sulla strada della ricerca da molti anni e in qualche modo continuo a ricercare. Forse, in un’estrema sintesi, si potrebbe dire che mi occupo di cercare di raccontare nel modo migliore le storie che sentivo da bambino.
Ecco, appunto: la memoria sembra giocare un ruolo fondamentale in tutti i suoi spettacoli.
È vero. Ma è dovuto al fatto che noi clown italiani o di cultura italiana, profondamente influenzati dalla maschera di Pulcinella, abbiamo bisogno di unire le punte delle dita come fa lui e accompagnare il gesto con la domanda: “E pecché?”. Pulcinella non fa altro che interrogarsi. E noi, come lui, abbiamo bisogno di questionare filosoficamente sulla vita che ci circonda. Questa ricerca ci smuove, ci porta indietro nel tempo, ci ancora al nostro passato perché forse, qualcuno, una volta ci ha dato una risposta. La nonna, quando eravamo bambini, o un amico, un libro, una canzone.
C’è un tema ricorrente in quello che racconta?
Ci sono due cose su cui continuo a girare. Le mie sono storie in cui l’amicizia gioca sempre un ruolo importante e in cui c’è sempre qualcosa che casca dal cielo come un’allusione a tutte le domande che vengono quando uno volge lo sguardo verso l’alto e s’interroga sulla magia di vivere. Lo dico così e poi sulla scena, da clown cialtrone, escogito piccoli giochi: una cascata di polli o di tappi di bottiglia che arriva sul palco non si sa come, una grande pioggia come in Rain.
Che cosa ha significato nella sua attività teatrale e nella sua esperienza di vita confrontarsi con Cechov?
Se non ci fosse stato l’invito del direttore del “Chekhov Festival di Mosca” avrei mantenuto una rispettosa riverenza, non mi sarei mai immerso nel suo mondo. È stata un’avventura straordinaria perché mi sono innamorato dell’integrità di quest’uomo che ho scoperto semplice, profondo e assolutamente inconsapevole degli effetti che la sua opera avrebbe provocato, nella letteratura e nel teatro europeo, negli anni a venire.
È appena nata la Compagnia Finzi Pasca: da quali artisti è formata?
È la fusione di due gruppi che già da tempo lavoravano insieme: il Teatro Sunil e Inlevitas, che avevo creato con mia moglie Julie Hamelin, una dei fondatori del Cirque Eloize. I miei collaboratori sono prima di tutto profondi amici e artisti con i quali condivido da sempre l’avventura del teatro. E negli anni abbiamo creato questa Compagnia: una quarantina di persone tra acrobati, artisti e clown che si muovono tutti insieme come una tribù.
C’è una grande aspettativa intorno ai suoi Pagliacci. Attraverso quali percorsi la leggerezza, il sogno, la clownerie dei suoi spettacoli incontrerà il melodramma?
Il problema principale che si poneva era trovare il modo per commuovere il pubblico, come ci riuscì Leoncavallo qualche tempo fa. Il pubblico attuale è più vicino al mondo astratto e dopo Freud e Jung è molto più vicino anche al linguaggio dei sogni. Tutto questo ha fatto sì che la percezione sia diversa, e sia diversa anche l’attenzione al modo di scolpire la realtà. La magia del teatro, a volte, consiste nel vestire con il linguaggio del presente la stessa storia. Ho colto dunque l’occasione per ragionare sul pagliaccio: mi secca molto che si usi questo termine in modo dispregiativo, così ho cercato di cambiare la prospettiva del racconto. Se nell’opera di Leoncavallo ci si trova in un villaggio abitato da contadini in cui arriva la compagnia di Canio, qui ci si trova in un mondo popolato di clown. I clown sono addestrati a capire che cosa sia vero e che cosa sia falso, sono maestri nel differenziare la realtà dalla finzione. Tutti tranne uno, Canio. Perché Canio è uno che confonde i due piani e alla fine, sulla scena, ammazza per davvero. Un vero pagliaccio non fa questo. E quando canta “Pagliaccio non sono”perfino lui ha come un’intuizione, perché non basta infilarsi la giubba e mettersi la biacca sul viso per trasformarsi in un clown. Questa prospettiva è l’unica libertà poetica che mi sono concesso.
In definitiva, chi è il clown?
Il clown è un attore specializzato nel recitare sul proscenio. La pista del circo è un grande proscenio: non ci sono quinte, si è in un luogo dove la questione dell’essere sinceri assume un valore particolare e diverso.
Maria Vittoria Vittori