Ecco a voi, sciore e sciori, il teatrino della politica
Furio Colombo descrive addirittura Gianfranco Fini come «solo nel trapezio, nel fascio di luce»
Di Diego Gabutti
Novello Picasso del periodo blu, Furio Colombo lo ha dipinto, sull’Unità, come un Acrobata del circo (ma andava bene, dicono i maligni, anche un Arlecchino). Eccolo lassù, «solo, sul trapezio, nel fascio di luce. Resta immobile, con quel misto di confidenza e di ansia che a volte l’immagine ravvicinata rivela su un volto altrimenti impassibile. Non c’è rete e tutti guardano in alto ammirati e increduli».Non sembra vero, ma stiamo parlando di Gianfranco Fini, già delfino di Giorgio Almirante, poi alleato del Cavaliere e infine Cofondatore. Fini «scruta il momento del salto azzardato che deve portarlo esattamente nel punto e nella posizione in cui sta ora, ma dopo aver spiazzato con precisione, in una sequenza perfetta, l’altro acrobata dalla sua postazione». Colombo aggiunge (forse sospettando che i lettori non lo seguiranno oltre nei labirinti di questa confusa e interminabile metafora) che «l’altro acrobata si chiama Berlusconi». Bè, ecco, l’immagine è suggestiva e spettacolare ma poco calzante, senza offesa. Voi ve lo vedete il Cavaliere in calzamaglia lustrinata, scarpe di raso, gambette nude, bandana rosso fiamma, pancera, mentre svolazza sotto il tendone del circo dicendo «hop, hop» e intanto rullano i tamburi, squillano le trombette dei clown e per di più, sotto, «non c’è rete»? Anche il Cofondatore, per quanto d’aspetto giovanile, allampanato, sempre dritto e impettito come chi non ha niente da nascondere e niente da temere, non ha più il fiato per lanciarsi dal primo trapezio e acchiappare al volo le barre del secondo trapezio mentre gli spettatori applaudono «ammirati e increduli». Forse il presidente della camera potrebbe almeno provarci, ma per il povero Cavaliere finirebbe male.Non è colpa di Colombo, intendiamoci, se le metafore giornalistiche s’imbizzarriscono come cavalli matti e scappano di mano ai giornalisti. Ormai il linguaggio, in particolare quello dell’informazione, è diventato un virus alieno, come nei romanzi di William Burroughs. Diciamo anzi che, come i fulmini macinati dai misteriosi ingranaggi della macchina rianimatrice del Barone Frankenstein, stampa e tivù sono chiamate a compiere ogni volta il miracolo di trasformare il cadavere di una notizia in una notizia viva e vegeta. A cominciare dalla disfida infinita tra cofondatori del Pdl libertà, fino al pluriannunciato redde rationem dell’altra notte. Notizia tra le più frolle, praticamente la carcassa, per non dire la carogna, d’un evento politico, questo tormentone da teatrino della politica (fuori, dentro, dentro, fuori) è stato ogni giorno ricicciato come gli avanzi del cenone di Natale da parte delle famiglie che rimangono attente al copeco (qualunque cosa ne dicano Moody’s e i ministri dell’economia devoti al federalismo). Non sai più come dirlo, per averlo già detto troppe volte, che sei d’accordo con Gianfranco Fini, oppure che lo vorresti morto? È in quel preciso momento che le metafore, profittando dell’ansia dei gazzettieri che non sanno più come dirlo, prendono d’assalto la tua prosa come Tigrotti di Mompracem lanciati alla conquista di un impero: il Cofondatore, che per l’Unità è un coraggioso acrobata picassiano che «non si spaventa più della faccia feroce del capo», per il Giornale è un corrotto raggiratore di vedovone fasciste che hanno incautamente donato i loro appartamenti monegaschi per finanziare la «buona battaglia». Berlusconi, che a destra è considerato un seduttore irresistibile, per la sinistra è un maniaco sessuale. Massimo D’Alema ha denunciato lo stesso fenomeno dichiarando che Nichi Vendola, il governatore pugliese che i giornali celebrano come «una faccia nuova», lui lo conosce «da almeno trentacinque anni».Tempi duri per chi si guadagna da vivere con la penna: le metafore non si reggono più in piedi, come i moribondi e gli ubriachi, e mandano tutto in vacca, le notizie come chi le scrive.