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Filarmonica Clown: 30 anni di ricerca alle sorgenti della comicità

La Filarmonica Clown in Amleto avvisato mezzo salvato (le fotografie sono di Stefania Ciocca)
La Filarmonica Clown ha fatto 30. Anzi, 31. Sono gli anni di attività professionale svolta sui palcoscenici, ma anche nelle strade, di una Milano (e non solo, viste le numerose tournée all’estero, ultima delle quali a Buenos Aires con lo spettacolo “Amleto avvisato mezzo salvato”) che ha vissuto molti cambiamenti, forse non sempre in senso positivo. La Filarmonica Clown è composta da Valerio Bongiorno, Piero Lenardon e Carlo Rossi.
“Abbiamo cominciato nel 1981 come professionisti vari, ma già nei due anni precedenti avevamo iniziato a lavorare sulla figura del clown”, dice Valerio Bongiorno, “Ci siamo conosciuti durante un laboratorio di clownerie con Bano Ferrari. Inizialmente Piero aveva intrapreso un’altra strada, dapprima con la Leva militare e poi con il Teatro di Ventura, quindi si è unito a noi, abbiamo mantenuto la nostra prima piéce, C’est la Vie, che era pura pantomima, senza parola, e in seguito abbiamo realizzato War Games, un lavoro teatrale pensato anche per la strada”.
Tutto ciò si inserisce in un periodo di temperie culturale nella ricerca del teatro che a Milano aveva, tra i suoi rappresentanti, il Crt, Centro di Ricerca per il Teatro. A partire dagli anni ’70 tutto viene rimesso in discussione, il testo, la figura del regista, il ruolo dello spettatore e il rapporto di questo con l’attore e, non da ultimo, il luogo teatrale. Il Crt si inserisce proprio in questo contesto per proporre lo spettacolo come evento fruibile a tutto tondo, in un’ottica di scambio tra attore e spettatore ed entro una dimensione di coinvolgimento collettivo. Per sei stagioni consecutive (dal 1976 al 1982) il Crt organizza la festa teatrale Ben Venga Maggio, un evento che si svolgeva in collaborazione con il comune di Milano e che aveva luogo nei quartieri della zona 15 (non centrali ma periferici, dove dal resto aveva sede il Crt, in via Ulisse Dini). E’ al Ben Venga Maggio che troviamo la Filarmonica Clown: “Era una manifestazione di strada in cui il teatro veniva portato fuori dal suo luogo abituale. Tanti gruppi lavoravano in questo senso perché era la temperie del momento e la risposta dal pubblico c’era! Ben Venga Maggio vedeva la partecipazione di tanto pubblico, molto. Ora la città è cambiata, forse un’esperienza di questo tipo potrebbe anche avere successo ma qualche dubbio ce l’ho, sono passati tanti anni. La gente che veniva lì era gente comune, abitanti del quartiere. All’epoca queste manifestazioni erano delle novità”, dice Valerio Bongiorno, e Piero Lenardon aggiunge: “C’era una ripresa del teatro popolare affinché venisse fuori dai teatri. E‘ proprio il discorso generale di un certo periodo che il Crt aveva sposato, il discorso di un teatro di ricerca e di una ricerca che riprendesse le espressioni più popolari dello spettacolo perché ritornasse in determinati luoghi. Il clown era inserito nel discorso delle sorgenti del teatro, un aspetto allora studiato e portato in auge dall’avanguardia di Grotowoski e di Barba. Una delle sorgenti dell’attore erano proprio la comicità e la clownerie”.
Si trattava di quell’antropologia teatrale nella quale si cercava di incontrare diverse espressioni, nuove realtà più lontane, dove lo spazio della città e il tempo della festa sono ripensati.
Continua Valerio Bongiorno: “Era proprio un discorso teorico del teatro che nasce dalla società, nella ritualità festiva della comunità. Oggi la ritualità e la liturgia sono cambiate, hanno altri linguaggi, e forse più che alle tradizioni popolari si è legati alla performance. I ritmi della vita sono cambiati ecco perché una cosa del genere oggi potrebbe anche funzionare ma Milano sembra tanto una città che ha perso se stessa per tanti motivi diversi, come la sua complessità sociale, e anche perché vent’anni di spettacolo popolare che passa attraverso altre forme mediatiche segnano anche il gusto delle persone. Bisogna vedere il rapporto tra produzione, mercato, risposta. Ultimamente, con la Festa del Teatro, girava moltissimo pubblico di ogni livello sociale e di tutte le età, ma se la Festa del Teatro non la fai più….si è perso il tram”.
In questi trent’anni di cambiamenti a vari livelli, culturali e sociali, la Filarmonica Clown ha mantenuto una sua forte identità sulla quale già da tempo aveva iniziato a lavorare: “Nella crescita individuale all’interno di questo lavoro produttivo abbiamo coltivato una forte identità, e questo è il lato positivo. Forse meno positiva è stata la non capacità di trovare dei nodi dal punto di vista artistico, creativo e produttivo che avrebbero potuto o che potrebbero aprire uno spiraglio ulteriore mantenendo si la nostra identità ma offrendo una possibilità di cambiamento. Penso a gruppi come la Banda Osiris che sono riusciti grazie alla musica a fare dei salti secondo una logica, la loro, nel senso della parodia musicale; oppure Aldo, Giovanni e Giacomo che hanno continuato con il loro stile sino ad arrivare al cinema e alla tv; o ancora Zuzzurro e Gaspare che si sono messi a girare nel circuito “della maggioranza” con commedie che potevano essere vissute dai loro personaggi. Poi come si va avanti? Bisogna sempre cercare di elaborare uno sviluppo e un cambiamento. Nonostante questo posso dire che quello che abbiamo fatto fino adesso è onesto e significativo”.
In quest’onestà e nella forte identità si inserisce il discorso, l’ispirazione e l’essere del clown. Dice Carlo Rossi: “Siccome noi non veniamo dal circo la nostra ricerca sul clown si svolgeva su un clown di tipo teatrale. Bano Ferrari e Bolek Polivka sono stati i nostri maestri; con Bolek (attore, mimo, drammaturgo e sceneggiatore polacco) abbiamo fatto cinque spettacoli, è stato un po’ un maestro oltre che un collega. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare queste personalità che con la figura del clown hanno giocato tantissimo grazie anche alla capacità artistica e autoriale. Ci siamo attaccati a questo carro e abbiamo fatto benissimo. Poi siamo andati avanti, abbiamo fatto altri spettacoli con altri registi. Dal punto di vista personale la matrice iniziale, di Bano soprattutto, l’ho sempre mantenuta perché anche se faccio l’attore di prosa io resto un clown, ed è un grande vantaggio. Dico in negativo che cosa è il clown secondo me: quando i ragazzi affrontano questa figura lo fanno dal punto di vista tecnico. Noi abbiamo saltato questa parte e siamo andati direttamente a lavorare sulla figura del clown, che cos’è, come ci si lavora. Era un tipo di lavoro interiore, sulla propria comicità, sull’autoironia: il clown non ferisce nessuno, per far ridere non si prende gioco di nessuno. Il clown constata il proprio limite che poi supera con la propria abilità. La base è questa capacità, non è certo la chiave che apre tutte le porte, ma a mio parere, se dovessi fare cose che apparentemente sembrano distanti, mi accorgo che attingo sempre a questa matrice iniziale”. E aggiunge Valerio Bongiorno: “Quando si vedeva Bolek Polivka in scena colpiva tanto l’assoluta libertà del suo linguaggio, un motivo personale tutto suo, libero dalle costruzioni di qualsiasi tipo di teoria teatrale. Lui era nato in una realtà culturale in cui l’elemento del buffo e dello strano si trovava in tante opere letterarie, nella poesia e nel teatro. Con il clown Bolek poteva essere libero di raccontare le storie; colpiva la sua presenza, la sua fisicità, la capacità di giocare di teatro con assoluta leggerezza, oltre che la sua abilità di fare del metalinguismo senza essere pesante. Citava Brecht e lo faceva giocando con Brecht, con il teatro e con gli spettatori. Il clown non ha quattro pareti, lui rompe la quarta e gioca con gli spettatori”.
Bolek Polivka è stato quel maestro che ha saputo tirare fuori il clown da ciascuno dei componenti della Filarmonica Clown, sfruttando la sensibilità personale di ciascuno di loro, nessuno proveniente da scuole di recitazione o da accademie teatrali ma, come dice Valerio Bongiorno, “ci siamo formati come una volta, con il capocomicato e la bottega. Bolek era il capocomico, anche se era più grande di noi di tre anni. Ma la sua formazione all’Est era di tipo accademico di alto livello”. Oggi si è persa un po’ questa componente di naturalezza, di indagine sull’interiorità, infatti dice Carlo Rossi: “Quando abbiamo cominciato io sono andato a vedere tutti gli spettacoli di clown, ma non solo, anche di attori che si ispiravano ai clown. Questa figura era molto interessante e studiata. Adesso è scomparso completamente, se chiedi in giro chi è il clown ti dicono che è quello di Mc Donald, quello del circo, al massimo è un giocoliere. Ma non è quello, il clown è Keaton. Certo, poi Keaton faceva i salti mortali e si beccava rischi incredibili ma non noti quello, noti che ha un personaggio straordinario e se togli questo il clown è solo tecnica e allora io preferisco dei giocolieri bravi. Se vedi il clown del circo è lo stesso: qualche giorno fa ho visto Leo Bassi e ha citato Charlie Rivel, per il quale il vero clown è colui che riesce a far ridere il pubblico senza fare nulla. Dimitri era un artista sommo, sapeva fare salti eccezionali e sapeva giocolare ma tutto ciò era inserito all’interno della logica del personaggio e del gioco col pubblico”.
Il gioco del teatro è un elemento che ricorre di continuo in questa conversazione con la Filarmonica Clown, che alle sue radici ha le nostre radici, della nostra tradizione spettacolare: “Giocare il teatro, tirare fuori l’ironia drammatica è interessante. Storicamente non abbiamo il clown, ma abbiamo qualcosa di simile e di parallelo, ovvero l’avanspettacolo. E poi abbiamo avuto il melodramma, che può avere un elemento parodico, dunque anche nel tragico l’ironia è presente. Il gioco resta comunque un gioco ed è quello che mi piace del teatro”.
E rifacendosi a questo grande gioco conclude Valerio Bongiorno: “Vorrei sottolineare due cose che mi mancano e che abbiamo imparato. Carlo e Valerio hanno usato due termini: leggerezza e libertà. Oggi mi sembra che tutto sia un po’ barocco e calcato per poter colpire il pubblico, manca la libertà sul palcoscenico che rende “semplice” e leggera ogni convenzione. E’ un ingrediente che mi manca, questo giocare il teatro. Una cosa che mi è piaciuta tanto di questa esperienza durata trent’anni è stata questa modalità del gioco: leggerezza e libertà sulla scena, fuori da certe convenzioni”.
Stefania Ciocca