Elder Miletti, classe 1951, per tanti anni è stato il volto comico del Circo Americano del cugino Enis Togni. In un complesso che ha visto artisti del calibro dei Salvadori e dei Rastelli, le formazioni allestite da Elder hanno sempre retto il confronto e anzi sono tornate utili in ogni tipo di tournée. Ma nella sua carriera non c’è stato solo l’American Circus. Elder si è distinto in molte case prestigiose come lo stabile di Krone a Monaco, il Blackpool Tower Circus, la Statdthalle di Vienna (per il 25ennale), l’Hippodrome di Great Yarmouth, il Mundial in Spagna, oltre ad aver partecipato a programmi televisivi in tutta Europa (Sabato al Circo, Pista de las Estrellas e altri) e ben quattro volte alla kermesse per eccellenza, il Festival di Monte Carlo.
Da dove arriva la tua passione per il clown?
Se devo essere sincero è montata piano piano. Al principio la vocazione non era chiara, nonostante in famiglia ci sia sempre stato il culto del clown e i miei zii Darix e Wioris lo avessero già fatto con ottimi risultati. Il mio sogno di ragazzo era fare un numero di cosacchi o lavorare con i coccodrilli, cose che poi non ho fatto mai. Certo il mio fisico non proprio atletico, un pochino mi indirizzava e per altro avevo una formazione musicale che mio padre aveva deciso di darmi, ma non in prospettiva clownesca, più che altro si trattava di avere per le mani almeno un mestiere da poter esercitare anche a cappello o nei ristoranti, in caso fossimo andati verso periodi bui. Poi ci fu un incontro importante…
Con chi?
A Milano, nel 1966, è arrivato al Circo Togni il grande clown Damocle Salvadori, di ritorno dagli Stati Uniti. Con lui ho iniziato una preparazione classica, il ballo, il canto (mio primo maestro fu mio cugino Divier, molto portato). Ricordo che Salvadori si concentrava soprattutto su piccole scenette molto visuali, molto veloci e, manco a dirlo, molto efficaci. In una delle prime che abbiamo presentato io ero un prestigiatore e lui un assistente pasticcione. Credo che molto del mio stile risalga a quegli insegnamenti.
Certo, anche lavorare ad un formato un po’ più lungo, ovvero la classica entrata musicale, mi ha dato delle soddisfazioni. Ai tempi del Circo nell’Acqua abbiamo messo in pista la parodia di un’orchestra sinfonica con i personaggi di Braccio di Ferro. Mio cugino Divier (Togni, nda) interpretava Olivia.
Hai lavorato in molte insegne importanti.
Ho avuto anche fortuna e comunque non ho mai avuto bisogno di un agente. Da Krone sono arrivato per fare un mese e sono rimasto tre anni. Al Circo Americano dovevo stare un mese e sono rimasto dieci anni. Ricordo che sono arrivato all’Americano perché i Rastelli, che erano i clown ufficiali, si erano dovuti assentare. Ho cominciato a Piacenza, la mia città, e Enis (Togni, nda) mi ha detto: “Guarda che se qui non lavoriamo è colpa tua.” Per fortuna è andata bene.
Come vedi il panorama odierno della clownerie?
Per quanto riguarda l’Italia, trovo che in questo momento si assomigliano un po’ tutti, dal trucco al modo di presentarsi, a quello che fanno in scena. E peraltro da noi i clown hanno poco spazio, mentre sono i re della pista e forse i direttori dovrebbero dar loro maggiore visibilità. Non è sempre stato così. Ricordo che da Darix nella prima parte dello spettacolo c’erano tre gruppi di clown. Del resto è vero che anche per quanto riguarda le imprese circensi la situazione è molto cambiata. Negli anni ’70, quando mi sono formato, c’erano una decina di colossi: Darix, Moira, Americano, Le Mille e una Notte, Medrano, etc., ora girano meno grandi nomi.
E guardando fuori dai confini nazionali?
Sulla scena internazionale apprezzo molto Peter Shub, è stato il primo ad affermarsi con uno stile del tutto originale rispetto alle tradizioni performative precedenti e ancora non è stato eguagliato da nessuno.
Bisogna anche ricordare che ogni clown deve trovare la propria personalità, dopo di che troverà il suo spazio. Ogni circo ha un clown adatto ed ogni clown ha il proprio circo. Io ero il clown adatto all’Americano. David Larible adesso al Roncalli è a casa sua, nonostante abbia dimostrato per anni di sapersi muovere in ogni tipo di spazi, finanche da Barnum.
Che consigli daresti ad un giovane clown?
Di lavorare il più possibile e il più possibile muoversi, non fossilizzarsi con un tipo di pubblico e di circo, spaziare, dal piccolo complesso al grande colosso. Ed avere voglia di mettersi in gioco. mi viene in mente un aneddoto. Nel 1983 alcuni miei compagni di lavoro dovettero tornare in patria. Trovai un giovane inglese, Rupert, che si presentò dicendomi: “Io sono un clown”. E io: “Se lo dici tu!” La mattina dopo c’era uno spettacolo per le scuole e si trovò del tutto spaesato. Io gli dissi: “Ti vesti da clown, ma non sei un clown. Mettiamoci al lavoro.” Divenne un’ottima spalla.
Quali partner ricordi nella tua lunga esperienza in pista?
Ho avuto modo di lavorare con moltissimi partner, anche se il veterano fra loro è Mauro Guarda, mia spalla di lungo corso. Potermi confrontare con stili diversi mi ha arricchito moltissimo. Poi bisogna ispirarsi ai grandi. Oltre a Salvadori io ho sempre stimato molto Gigi Cavallini, per me uno dei più grandi clown italiani anche se assai sottovalutato.
Qualche altro nome per te importante?
Carlo Colombaioni, il trio Caroli con Enrico, Ernesto e Francesco, splendido bianco. Inoltre come dimenticarsi di mio zio Romualdo, che con la sua maschera alla Lou Jacobs (e prima di lui Albert Fratellini) in Italia ha rappresentato l’iconografia del clown.
Ma il segreto più importante è amare il proprio lavoro. Io ne sono innamorato come la prima volta. E mi considero un fortunato per avere avuto tante occasioni per portare il mio clown in giro per il mondo!
Claudio Monti e Alessandro Serena
L’intervista a Elder Miletti compare sulla rivista Circo di luglio in distribuzione fra qualche giorno.