In occasione della prima volta a Milano del Circo El Grito, il suo fondatore Giacomo Costantini ci racconta cosa significa fare un “circo contemporaneo all’antica”, tra contaminazione di generi e attaccamento al fascino ancestrale del tendone.
“Creatività vuol dire collegare cose diverse”. Per capire l’essenza del Circo El Grito basterebbe forse questa frase che il suo fondatore Giacomo Costantini ci ha detto durante l’intervista in occasione della prima volta del gruppo a Milano. Inizialmente decisa ad esibirsi nel suo chapiteau, la formazione, composta anche dall’acrobata aerea uruguaiana Fabiana Ruiz, ha poi optato per le assi del Teatro Menotti.
“La compagnia El Grito” ci racconta Giacomo “nasce nel 2007 a Bruxelles dopo che avevamo girato mezzo mondo”; L’Espace Catastrophe, un centro di residenza internazionale di circo, li sostiene offrendo una residenza e coproducendo il loro primo lavoro, Scratch and Stretch, che apre al gruppo le porte dei circuiti professionali europei e gli permette di superare le duecento repliche. Il lavoro successivo, 20 Decibel, parte da presupposti scientifici (19 decibel è il silenzio) per arrivare a riflessioni artistiche profonde: “Come facciamo a salvaguardare il piccolo che si nasconde dietro l’evidente?”. Durante lo show Giacomo, sguardo ed espressività alla Johnny Depp, esplora le infinite possibilità del suono attraverso un uso virtuosistico della bocca e accompagnandosi con una tastiera travestita da macchina infernale, si rivolge al pubblico chiamandone il sostegno e strappando più d’una risata e “disturba” Fabiana (sua compagna anche nella vita) che cerca di conservare la sua compostezza esibendosi in numeri coi tessuti o a corpo libero. Potrebbero ricordare la classica coppia di clown, il Rosso e l’Augusto, che litigano amorevolmente, se il contesto non fosse molto lontano da quello del circo tradizionale. Il punto è proprio che per una realtà come El Grito le questioni d’etichetta, quando c’è l’arte di mezzo, sviano dall’essenza che viene trasmessa al pubblico; alla base delle performance di questa compagnia c’è infatti il dialogo tra i più svariati prodotti dell’intelletto umano. Il rapporto tra circo e musica, ad esempio, è senza dubbio centrale nell’estetica del gruppo, che ha intitolato emblematicamente Drums & Circus uno dei suoi show, frutto di una serie di accostamenti bizzarri che spiegano molto bene come si muove la fantasia di questa compagine: lo spettacolo non è solo “una versione rock di Bach” che unisce la passione di Giacomo per la classica e per i sintetizzatori alla tecnica di un formidabile batterista, ma vive anche dell’incontro in scena tra il buon Johann Sebastian e il padre del circo moderno Philip Astley (che sono quasi contemporanei), accompagnati da un gaucho della pampa uruguaiana armato di boleadoras, tanto per aggiungere stimoli ad un già caleidoscopico viaggio a tutto tondo nell’arte.
Il gusto per il sincretismo è innato in Costantini, che dopo alcune esperienze nell’intrattenimento dal vivo e nella danza contemporanea debutta con un circo tradizionale, il Bellucci: “Lì dovevo fare un numero, ma alla fine ne facevo cinque, sei, tutto: giocoleria di fuoco, un numero comico, ballavo il tango con una gallina… per me è stato un laboratorio molto importante e soprattutto un’esperienza umana fondamentale, perché capisco che il circo è un sistema complesso, una società assolutamente extra-territoriale e molto più bella della società europea del 2015 che non solo non mi piace, ma mi fa proprio schifo, per cui andando al circo mi ritrovo con altri valori, un’altra cultura. Io credo che il pubblico rimane attratto dal circo tradizionale oltre che dallo spettacolo in sé (che, purtroppo, ultimamente si è avvilito) proprio per questa magia: quel parcheggio squallido del più brutto centro commerciale viene trasformato in una terra lontana, in un altro paese”. Il Grito, in effetti, si distingue da altre compagini di circo contemporaneo proprio per questo attaccamento all’immaginario classico e al fascino ancestrale del tendone, che è anche cultura dell’artigianalità: “Noi ci facciamo le cose da soli. Lo chapiteau l’ho progettato io, il palco l’ho saldato io, Fabiana ha cucito le quinte…”; solo una motivazione forte può sostenere un progetto così faticoso, fatto anche di difficoltà pratiche come l’acquisto di un camion, le incombenze burocratiche, il montaggio e lo smontaggio delle strutture necessarie. “Faremo pure circo contemporaneo però la fatica è primordiale!”
Ma come nasce, in concreto, uno spettacolo del Grito? “Abbiamo un vero e proprio metodo: prima di tutto aspettiamo la necessità di farlo, dobbiamo proprio sentirlo; c’è una fase che è aperta a 360 gradi, libera su tutto”; Giacomo la visualizza come una sorta di “armadio” in cui riporre le idee e le suggestioni più disparate, dai numeri circensi che pensano di portare nello show ai concetti che vogliono esprimere. “A un certo punto ti fai un’idea vaga e ti scegli un tema… ma poi questo nello spettacolo magari non c’è, perché caposaldo della nostra estetica è che col circo non si racconta, col circo si evoca. Il teatro può raccontare, il circo per quanto ci riguarda e coi nostri strumenti, può evocare”. Come si concilia però questa volontà di raggiungere lo spettatore con la performance in sé alla grande ricerca preparatoria e agli innumerevoli spunti di cui si nutre lo spettacolo? “E’ un equilibrio molto delicato, molto sottile” ammette Costantini, che pur partendo magari da astrazioni e concetti eterei, inserisce nella scrittura degli show dei “punti di ancoraggio” che permettano al pubblico di non perdersi, “dei punti coi quali ti fai una tua storia che per te è coerente e possibilmente costruttiva”. Per comprendere l’estetica del Grito bisogna in qualche modo affrontare questa apparente contraddizione, che è centrale perché si tratta di una vera e propria sfida: operare in questo modo significa lavorare su diversi piani di lettura, ottenendo risultati ambivalenti e per questo estremamente interessanti; secondo la concezione di Giacomo, la possibilità di emozionare anche chi non riesce a cogliere i sottotesti e le allusione più colte convive con la trasmissione di quegli stessi riferimenti, che comunque in qualche modo vengono percepiti grazie alla passione che li ha generati; il compito che si è prefisso Costantini non è insegnare qualcosa allo spettatore, ma offrirgli un’opera di qualità immediatamente fruibile; sta poi all’occhio di guarda decidere (in base anche agli strumenti critici che possiede) quanto spingersi in profondità.
Alla fine della conversazione chiediamo a Giacomo quale sia, in definitiva, il senso del Circo El Grito. “Se tu mi chiedi perché faccio quello che faccio, è perché sento che è l’unica cosa che potrei fare nella vita. Appare presuntuoso dirlo, ma credo che anche se non fosse stato inventato il circo contemporaneo farei questo. È il contenitore perfetto per un curioso della creatività”.
Nicola Campostori