Skip to content Skip to footer

Tutta la città è in ribollimento per il carnevale, che è sul finire; in ogni piazza si rizzan baracche di saltimbanchi e giostre; e noi abbiamo sotto le finestre un circo di tela, dove dà spettacolo una piccola compagnia veneziana con cinque cavalli. Il circo è nel mezzo della piazza; e in un angolo ci sono tre carrozzoni grandi, dove i saltimbanchi dormono e si travestono, tre casette con le ruote, coi loro finestrini e un caminetto ciascuna, che fuma sempre; e tra finestrino e finestrino sono stese delle fasce da bambini. C’è una donna che allatta un putto, fa da mangiare e balla sulla corda. Povera gente! Si dice saltimbanco come un’ingiuria; eppure si guadagnano il pane onestamente, divertendo tutti; e come faticano! Tutto il giorno corrono tra il circo e i carrozzoni, in maglia, con questi freddi; mangian due bocconi a scappa e fuggi, in piedi, tra una rappresentazione e l’altra; e a volte, quando hanno già il circo affollato, si leva un vento che strappa le tele e spegne i lumi, e addio spettacolo!
Debbon rendere i denari e lavorar tutta la sera a rimetter su la baracca. Ci hanno due ragazzi che lavorano; e mio padre riconobbe il più piccolo mentre attraversava la piazza: è il figliuolo del padrone, lo stesso che vedemmo fare i giuochi a cavallo l’anno passato, in un circo di piazza Vittorio Emanuele. È cresciuto, avrà otto anni, è un bel ragazzo, un bel visetto rotondo e bruno di monello, con tanti riccioli neri che gli scappan fuori dal cappello a cono. È vestito da pagliaccio, ficcato dentro a una specie di saccone con le maniche, bianco ricamato di nero, e ha le scarpette di tela. È un diavoletto. Piace a tutti. Fa di tutto. Lo vediamo ravvolto in uno scialle, la mattina presto, che porta il latte alla sua casetta di legno; poi va a prendere i cavalli alla rimessa di via Bertola; tiene in braccio il bimbo piccolo; trasporta cerchi, cavalletti, sbarre, corde; pulisce i carrozzoni, accende il fuoco, e nei momenti di riposo è sempre appiccicato a sua madre. Mio padre lo guarda sempre dalla finestra, e non fa che parlar di lui e dei suoi, che han l’aria di buona gente, e di voler bene ai figliuoli. Una sera ci siamo andati, al circo; faceva freddo, non c’era quasi nessuno; ma tanto il pagliaccino si dava un gran moto per tener allegra quella po’ di gente: faceva dei salti mortali, s’attaccava alla coda dei cavalli, camminava con le gambe per aria, tutto solo, e cantava, sempre sorridente, col suo visetto bello e bruno; e suo padre che aveva un vestito rosso e i calzoni bianchi, con gli stivali alti e la frusta in mano, lo guardava: ma era triste. Mio padre n’ebbe compassione, e ne parlò il dì dopo col pittore Delis, che venne a trovarci. Quella povera gente s’ammazza a lavorare e fa così cattivi affari! Quel ragazzino gli piaceva tanto! Che cosa si poteva fare per loro? Il pittore ebbe un’idea – Scrivi un bell’articolo sulla Gazzetta, – gli disse, – tu che sai scrivere: tu racconti i miracoli del piccolo pagliaccio e io faccio il suo ritratto; la Gazzetta la leggon tutti, e almeno per una volta accorrerà gente. – E così fecero.
Mio padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, che diceva tutto quello che noi vediamo dalla finestra, e metteva voglia di conoscere e carezzare il piccolo artista; e il pittore schizzò un ritrattino somigliante e grazioso, fu pubblicato sabato sera. Ed ecco, alla rappresentazione di domenica, un gran folla che accorre al circo.
Era annunziato: Rappresentazione a beneficio del pagliaccino; del pagliaccino com’era chiamato nella Gazzetta. Mio padre mi condusse nei primi posti. Accanto all’entrata avevano affisso la Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori avevano la Gazzetta in mano e la mostravano al pagliaccino, che rideva e correva or dall’uno or dall’altro, tutto felice. Anche il padrone era contento. Figurarsi! Nessun giornale gli aveva mai fatto tanto onore, e la cassettina dei soldi era piena. Mio padre sedeva accanto a me. Tra gli spettatori trovammo delle persone di conoscenza. C’era vicino all’entrata dei cavalli, in piedi, il maestro di ginnastica, quello che è stato con Garibaldi; e in faccia a noi, nei secondi posti, il muratorino, col suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di suo padre; e appena mi vide, mi fece il muso di lepre. Un po’ più in là vidi Garoffi, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse avere incassato la Compagnia. C’era anche nelle seggiole dei primi posti, poco lontano da noi, il povero Roberti, quello che salvò il bimbo dall’omnibus, con le sue stampelle fra le ginocchia, stretto al fianco di suo padre, capitano d’artiglieria, che gli teneva una mano sulla spalla. La rappresentazione cominciò. Il pagliaccino fece meraviglie sul cavallo, sul trapezio e sulla corda, e ogni volta che saltava giù, tutti gli battevan le mani e molti gli tiravano i riccioli.
Poi fecero gli esercizi vari altri, funamboli, giocolieri e cavallerizzi, vestiti di cenci e scintillanti d’argento. Ma quando non c’era il ragazzo, pareva che la gente si seccasse. A un certo punto vidi il maestro di ginnastica, fermo all’entrata dei cavalli, che parlò nell’orecchio al padrone del circo, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come se cercasse qualcuno. Il suo sguardo si fermo su di noi. Mio padre se n’accorse, capì che il maestro aveva detto che era lui l’autore dell’articolo, e per non essere ringraziato se ne scappò via, dicendomi: – Resta, Enrico; io t’aspetto fuori. – Il pagliaccio, dopo aver scambiato qualche parola col suo babbo, fece ancora un esercizio: ritto sul cavallo che galoppava, si travestì quattro volte, da pellegrino, da marinaio, da soldato, da acrobata, e ogni volta che mi passava vicino, mi guardava. Poi, quando scese, cominciò a fare il giro del circo col cappello da pagliaccio tra le mani, e tutti vi gettavan dentro soldi e confetti. Io tenni pronti due soldi; ma quando fu in faccia a me, invece di porgere il cappello lo tirò indietro, mi guardò e passò avanti. Rimasi mortificato. Perché m’aveva fatto quello sgarbo? La rappresentazione terminò, il padrone ringraziò il pubblico, e tutta la gente s’alzò, affollandosi verso l’uscita. Io ero confuso tra la folla, e stavo già per uscire, quando mi sentii toccare una mano.
Mi voltai: era il pagliaccino, col suo visetto bruno e i suoi riccioli neri, che mi sorrideva: aveva le mani piene di confetti. Allora capii. – Voresistu, – mi disse, – agradir sti confeti del pagiazzeto? – Io accennai di si e ne presi tre o quattro. – Alora, – soggiunse, – ciapa anche un baso. – Dammene due, – risposi, e gli porsi il viso. Egli si pulì con la manica la faccia, infarinata, mi pose un braccio intorno al collo, e mi stampò due baci sulle guance dicendomi: – To’, e portighine uno a to pare.

Edmondo De Amicis, Cuore, 1886