Dario Fo (1926 Sangiano, Varese) è il giullare italiano per eccellenza. Da sempre nella sua arte ha puntato sulla comicità italiana di cantori, giullari, commedianti dell’arte che sono alla base del clown e delle sue abilità.
Milano ha tributato onore a Dario Fo, già Nobel nel 1997, e ad una sua particolare abilità che in pochi conoscono, la pittura. La mostra, ospitata a Palazzo Reale fino al 3 giugno, si intitola “Dario Fo a Milano, lazzi sberleffi dipinti”, è vasta, ricca, colorata ed è un autentico percorso nella vita di un’artista, nell’arte di un uomo, nella storia di un paese. Non solo opere, ma numerosi filmati che riproducono spezzoni di famosi spettacoli o i momenti di realizzazione delle opere stesse da parte del riscoperto pittore.
Il percorso si apre con queste parole: “Ricordo la tiritera che Ruggieri Apuliese, famoso giullare senese del 200, faceva di sé e dei suoi mestieri: Io son pintore e cantore. Io son giullare e so gabbare in contrasto”. Una presentazione che dal senese giullare duecentesco arriva sino ad oggi per calzare a pennello sull’attore, buffone, pittore e scrittore Fo.
Il percorso parte all’incontrario, forse perché lo sconvolgimento, anzi il capovolgimento, è un elemento tipico che si accompagna a lazzi e sberleffi. Le prime sale, corrispondenti ad opere realizzate negli ultimissimi anni (dal 2010 a oggi), raffigurano fatti sociali di comune rilevanza, che hanno colpito, nel bene e nel male, la pubblica opinione e che hanno smosso le coscienze di molti, degli artisti in primis. Così si passa dai naufraghi del nuovo millennio agli sbarchi di Lampedusa (il cui punto di partenza di lavorazione artistica sono le fotografie del reporter Adriano Gamberini); dalla situazione delle carceri italiane, la cui ispirazione nasce in Fo dalla partecipazione alla Messa di Natale nel carcere milanese del S.Vittore nel dicembre 2003, al grande sberleffo (involontario) del ponte sullo stretto di Messina; le vicende deplorevoli seguite al terremoto dell’Aquila alle quotidiane stragi sul lavoro (titolo dell’opera molto eloquente: Dobbiamo salire sempre più in alto per farci sentire); la figura e il ruolo rivestito da Roberto Saviano e quello di Silvio Berlusconi e poi le losche figure di politici, avvocati e petrolieri. Questa prima parte della mostra racconta su enormi tele realizzate in tecnica mista questi avvenimenti, tragici e talvolta più o meno grotteschi, una sorta di epopea dell’epoca moderna. Fo è stato assimilato, nelle opere riguardanti gli incidenti sul lavoro, al francese Fernand Léger ma forse è più ravvicinabile in questo senso al muralista messicano Diego Rivera: non tanto per la tecnica pittorica utilizzata, quanto per la scelta della mole del dipinto e per la volontà di assumersi un impegno sociale e di realizzare, appunto, quell’epopea che dà voce ad eventi spesso messi a tacere nel momento del reale riconoscimento dell’importanza dei fatti.
Dall’attualità il viaggio della mostra di Dario Fo passa ai fatti raccontati nella Bibbia, nel Vangelo e nei più accattivanti Vangeli Apocrifi: si dà spazio all’altro giullare per eccellenza, San Francesco, che Pasolini aveva raffigurato in un film chiamandolo “giullare di Dio”. Quindi il Medioevo, il Rinascimento, i grandi pittori come Leonardo da Vinci, Cosmè Tura, Mantegna, Michelangelo, Giorgione. Poi arriva l’immensa sala dedicata alla nostrana commedia dell’arte cui Fo tanto ha dato e dalla quale tanto ha tratto. Non solo disegni e dipinti, ma anche fondali per spettacoli e bozzetti scenografici, soprattutto durante le incursioni all’interno del mondo dell’opera lirica per il quale Dario Fo curò la regia e la messinscena di opere quali “Storia di un soldato”, “Il viaggio a Reims”, “Il barbiere di Siviglia”, “L’Italiana in Algeri”. Non mancano i bozzetti dei suoi spettacoli come “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe”. E poi si arriva alla fine, che sarebbe l’inizio cioè i primi lavori di Dario Fo, dipinti, ritratti, prime prove, disegni e bozzetti.
I richiami al circo e al suo suggestivo mondo di spettacolo popolare che ha attraversato la storia in modo multiforme sono sparsi qui e là, proprio come accade nell’arte scenica di Dario Fo che presenta spesso rimandi clowneschi e comici: all’inzio in una grande tela intitolata a Buster Keaton e ad una sua gag, nella tela dedicata all’imperatrice Teodora, artista e acrobata prima che testa incoronata; negli sberleffi che al contempo Fo fa alla storia dell’arte e al giudizio universale riproducendo una famosa opera dell’arte italiana e intitolandola “Giudizio universale: spernacchiamenti”; nei bozzetti realizzati in pennarello e tempera per la messa in scena dell’opera “L’italiana in Algeri”; nel tributo al teatro di figura dei burattini col quale rende omaggio alla compagna di sempre Franca Rame.
Non sono assolutamente le prove di un dilettante che sfrutta la fama per far posa di sé ma sono i dipinti e le realizzazioni artistiche frutto di una vita d’ispirazione e di una capacità tecnica chiaramente ravvisabile già dalle opere giovanili. Un percorso al contrario (o forse no) che mostra l’evoluzione di uno stile, di una poetica e di un scelta in costante riscoperta. Una curiosità: nelle prime sale dedicate alle grandi opere di tema sociale sono esposti anche i bozzetti e la cosa interessante è che questi ultimi sono bellissimi, forse ancora più in grado di rivelare qualcosa di chi ha messo mano dentro e sull’opera.
Stefania Ciocca