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Guido Ceronetti
Sono un lettore assiduo di Guido Ceronetti, uno scrittore che, ovunque vada, va per conto suo. Quando vedo la sua firma su qualche giornale, mi accosto sempre con buona volontà perchè so che il mio repertorio di fantasia avrà solo da arricchirsene.
Con buona volontà, dunque, ancora una volta mi sono dedicato alla lettura di un suo articolo sul Corriere della Sera, datato 16.3.2016, irresistibilmente attratto da un titolo succoso, “L’importanza di essere un clown”.
Ahimè, il titolo è metafora di un argomento che con la comicità clownesca è in netta contrapposizione. Per chi, come me, ha del clown una visione ai limiti del sacrale, per via del nido di spine che sempre minaccia chi ha abbracciato la professione di far ridere, il solo avvicinamento a una attività come la politica che è tutto l’opposto mi fa rabbrividire. E sì, perchè il vederla – la politica, intendo – sovente abbarbicata al principio di sottomettere la gravità del reale alle giocolerie della finzione, è gioco di parole assai duro da digerire.
In questo caso, per aggiunta, Ceronetti infierisce sul mio percorso digestivo affermando che invece Fellini, lui sì, i clowns li aveva “magistralmente capiti”. Sono anni che lo scrivo e lo scriverò ancora una volta, anche se non pretendo di far cambiare idea a nessuno. FELLINI NON AVEVA CAPITO I CLOWNS, Fellini – ancora una volta come gli era accaduto con successo in tante altre occasioni – aveva capito Fellini, e aveva agito con indubbia maestria avviluppando il circo in un processo di fellinizzazione di quelli che soltanto a lui potevano venire concessi.
Il clown in una cornice mortuaria, dentro e fuori. Ma in quale circo l’ha mai sognata, Fellini, questa sua invenzione cinematografica?
Ma era Fellini, e tanto bastava. Passassero ancora cento anni, nessuno dubiti: qualcuno al cinema riparlerà di clown e piangerà con Fellini.
Ruggero Leonardi