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Indimenticabile la “lectio magistralis” che Arturo Brachetti (nella foto con Silvan) ha impartito ad allievi e professori nella sede universitaria di Milano, il giorno 24 novembre, in occasione della serie di interventi programmata da quell’infaticabile insegnante di circo che è Alessandro Serena. Forse addirittura meglio, oso dire, dello spettacolo Ciak si gira che attualmente va in scena in un teatro milanese. Lì è una sfilata di trasformazioni, seppure improntate a una genialità che toglie il fiato. Qui, in sede universitaria, il genio in persona. Che parla, parla, e sembra svelarsi. Però non si svela, e ci mancherebbe altro. Brachetti parla, parla, e passa con il solo rivestimento delle parole da un camuffamento a un altro, e incanta, diverte, sorprende. Ti fa credere di condurti al di là dei suoi camuffamenti, ma poi – e di questo gli siamo grati – si guarda bene dal farlo. Brachetti è quello lì che vediamo, o più precisamente non vediamo: i mille modi di un uomo di reinventarsi l’immagine per regolare i conti con l’altro uomo che sta, ben sigillato, dentro di lui. Difficile trovare parole per dire che cosa comunica. Certo il risultato è una straordinaria inquietudine cui noi spettatori decidiamo di voler bene.
Naturalmente in questa scorribanda è affiorato dalle sue parole anche il nome di Leopoldo Fregoli, leggendario maestro di tutti i trasformisti che sono venuti dopo di lui. E a questo punto la mia memoria è tornata agli anni Sessanta, quando mi è accaduto di lavorare in redazione con Dino Falconi, figlio di grandi attori, che aveva dato del tu a tutto il mondo dello spettacolo e spesso e volentieri me ne raccontava vedendomi attentissimo ascoltatore. Ricordo un episodio in particolare. Era in un ristorante a pranzo con Fregoli mentre un altro famoso attore di quei tempi, Memmo Benassi, pranzava ad un altro tavolo. Ad un certo punto, Fregoli disse a Falconi: “Vuoi vedere che fra poco Benassi scoprirà che c’è della cacca nel suo piatto? Aspetta e vedrai.” Si concentrò, guardando fissamente l’attore, e dopo pochi minuti effettivamente accadde che Benassi prendesse a fiutare il suo piatto e a inveire poi con l’incolpevole cameriere chiedendogli cosa diavolo gli avesse portato. In altre parole, ipnotismo: dote di cui, a quanto pare, il gran maestro di trasformismo era dotato. Avrei voluto menzionare questo antico episodio, a Brachetti, per chiedergli se non avesse a sua volta qualche rapporto con l’arte dell’ipnotismo, ma quella di ieri non mi era parsa l’occasione adatta. Eppoi, a ben pensare, una risposta sull’argomento già l’aveva data, a me e a tutti coloro che come me avevano assistito al sortilegio Brachetti. Tutti, dopo averlo sentito parlare, ci sentivamo come appena usciti da uno stato di ipnosi. Perchè Brachetti è una invenzione senza aggettivi, e noi per una mezz’ora elargita con generosità abbiamo vissuto non i nostri respiri ma i respiri di Brachetti, non le nostre sensazioni ma le sensazioni di Brachetti. Abbiamo vissuto Brachetti. E questo, se non è ipnotismo, poco ci manca.
Ruggero Leonardi