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BBB

Alessandro Tavola – che non spreca parole per presentarsi e di sé dice “è nato e sta crescendo a Milano” – partecipa al concorso Letteralmente Circo, promosso da Ente Nazionale Circhi e Circo.it con il racconto BBB.

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Mi ha guardato la schiena. Eravamo sul letto, in una stanza nuova. Mi ha toccato il collo e ha fatto scorrere la camicia da scoprirmi del tutto. E la cosa non mi ha dato fastidio: lo ha fatto con un disinteresse tale da farmi desiderare che continuasse. Ha visto il tatuaggio e mi ha chiesto di raccontarglielo. Mi ha dato un bacio e non le interessava il mio corpo. Le ho detto che non volevo.
Ha dato un bacio al tatuaggio e non le interessava il tatuaggio. Le ho detto che non volevo. Il tatuaggio mi ha bisbigliato sotto la pelle come al solito, senza che la voce fosse di nessuno di loro. Mi sono messo a fumare e le ho chiesto se vedesse il tizio sulla sinistra, quello con il candelotto di dinamite e le tazze disegnate sul camice. Una doppia emme di assenso, perché si stava mettendo a fumare anche lei. Davanti avevo il mio riflesso sulla porta del balcone, con le sue gambe che spuntavano dietro di me sulla sinistra, e forse è per questo che ho iniziato da lì. Quello – le ho detto – è Alessio La Carmencita, che faceva esplodere oggetti pieni di vernice che finiva addosso ai comprimari, che eravamo io o gli altri, chiunque non avesse il numero subito dopo, o qualcuno del pubblico: padri pelati con la pancia sproporzionata al resto, negli occhi, più d’ogni altra cosa, la necessità di ammortizzare una spesa controvoglia, di sdentati e sfiorite portate da noi un pomeriggio, più economico della sera, perché non c’era nient’altro da fare, da vedere. A conteggiare le ore ci arrangiavamo, s’impara, ci si abitua, ripetendo le cose, e, anche se ci avevano tolto il calendario tranne che per il nostro compleanno, il sabato e la domenica e i giorni di festa si riconoscevano dalla faccia delle persone.
Il tizio con la bomba e la bombetta – ho continuato, mentre lei aveva ancora il dito su Alessio La Carmencita – è ccc, da scriversi in minuscolo, da pronunciarsi ci-ci-ci. Mi ha chiesto perché. Mi ha chiesto di cosa fosse la sigla. Charles, e non Charlie, Chaplin Cannibale, ma nell’ordine che preferisci, ecco perché le minuscole. E Charles Chaplin, come ha detto ccc una sola volta intagliando del polistirolo, è una parola di pubblico dominio tanto quanto cannibale, ed entrambi, a loro volta, cannibalizzati. Se fosse stato una donna, ha detto una sola volta tingendo di nero d’inferno il polistirolo intagliato, mi sarei chiamato mmm, em-em-em. Marilyn Monroe Masticata. Mi ha chiesto dove io fossi nel tatuaggio. E per la prima volta dissi la verità senza perifrasi, le dissi che su quella foto diventata disegno c’erano solo quelli morti, che arrivavano le comunicazioni di decesso ad ognuno e che tutti ci ritrovavamo dallo stesso tatuatore.

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Per tutto il tempo nessuno aveva saputo che cosa facesse ridere: se i numeri di per sé o il fatto di vedere ladri, assassini e stupratori coprirsi di ridicolo. Ci eravamo ritrovati ad interessarci dei gusti di un pubblico con un buco di almeno dieci anni alle spalle. Internet resisteva attraverso pochi siti e punti di connessione, la tv era ripartita da zero con un unico tris di canali nazionali e i film non esistevano più. Eravamo con pochi vestiti addosso e unti da fare schifo anche a quelli dell’ultima fila, che pagavano centocinquanta lire. Avevamo un motivatore che ci diceva che eravamo più lucenti, che i capelli zozzi e la pelle sporca luccicavano meglio sotto la luce gialla meglio di qualsiasi trucco. Per la puzza ci diceva che alle persone piaceva, come piace l’odore degli zoo. E il nostro era un circo senza animali, gli animali eravamo noi con la nostra depravazione, con la faccia pitturata. Alcuni esaltati dicevano che eravamo i nuovi gladiatori, e non avevano torto. Solo che noi la voglia di uccidere l’avevamo avuta e soddisfatta, forse. Alessio La Carmencita aveva ucciso la moglie, dopo averle preparato la colazione, mettendole un candelotto di dinamite nella vagina. Era accertato, ccc aveva portato al suicidio almeno dieci persone, dopo avergli portato via tutto.
Avevamo tutti ucciso, rubato, stuprato, depredato. Ma eravamo tutti innocenti. Non avevamo distrutto nulla. Eravamo stati tutti condannati, immortalati nell’adesso e cancellati, per tutto il riguardante il prima, dai flash dell’inquisizione. Innocenti e colpevoli. Gli ergastoli facevano vendere di più, davano più visualizzazioni ed inserzioni pubblicitarie, quindi aumentarono il numero di condanne.

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Riempite le prigioni, costruite di nuove, riempite anche quelle, reintrodotte le galee e poi istituiti i circhi. Quattro tir e cinque persone per tir, mediamente: materiali e guardiani, anche se durante i silenzi di giorni sembravano più le tensostrutture ammassate e i cassoni coi trucchi e i vestiti a prendersi cura di noi. In realtà, nessuno ricordava se fosse colpevole o meno: la sicurezza dell’oblio, la perfezione della colpevolezza, la cancellazione del bisogno di fuggire. Assassini o meno, carnefici o vittime, era più comodo ricominciare da lì per tutti, vedere dove finiva la pozza, la striminzita misura della coscienza, un peccato originale personalizzato e tutti gli strumenti per ribaltarlo. Io l’avevo uccisa e mi ero ucciso, e quale delle due cose venisse prima non ha mai contato. Si era tolta perché non poteva togliermi, dopo aver capito che non poteva mettermi. Mi ero tolto perché non poteva togliermi, dopo aver capito che non potevo metterla. Non potevamo metterci. Ci dicevamo, ci indossavamo: io voglio tutto, e tu al tutto dai forma. Tutto il nostro tempo
insieme era dirci questo, in un modo diverso ogni giorno, ogni dieci minuti. Ma aveva capito che tendevo troppo alla simbiosi, che volevo assorbirla, che lei per me era la forma di ogni singola cosa, dell’aprire gli occhi stesso, che non avevo corpo prima che arrivasse lei, che il mio averne bisogno era un ostacolo al mio amarla. Le stesse cose trovavamo inaccettabili, ma piangevamo per motivi diversi. Io per i suoi silenzi, lei per il mio rumore. E ridevamo per le stesse cose, sempre.

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Alessio La Carmencita e ccc erano due pagliacci dinamitardi. I fratelli Luna, che fratelli non erano, trapezisti. Little Lu la contorsionista. Big Mac l’uomo gigante, che sollevava qualsiasi cosa: il suo show iniziava ancora prima, nel parcheggio, dove spostava le automobili come fossero scatoloni vuoti. Due ragazze e un ragazzo, magrissimi, facevano i lanciatori di coltelli, ma arrivarono anche a lanciarsi tra di loro. Tre tizi con il corpo di quarantenni e le mascherine da teschio cantavano canzoni inaspettatamente allegre, dall’amaro sottile ma non contrapposto: gli unici che ammirassi senza invidia, per come riuscivano a gettare in faccia a tutti la semplicità senza millantare di averne la chiave. Ballerine e ballerini, quattro più quattro, danzavano su note orientali, vestiti da animali domestici: cani, gatti, criceti, pesci rossi; poi arrivava un domatore vestito da maestro di kung fu a metterli in riga. Qualcuno, questo il suo nome, dipingeva in diretta, usando tutto il corpo, su teli che occupavano quasi tutta la pista. Qualcun Altro, così si chiamava, raccontava storie millenarie riguardanti cose trovate nei cassonetti. E spesso si mescolava il tutto.
Ci piaceva essere classici. Volevamo – al massimo – trasformarci in Grand Guignol. Tutto bianco, nero e rosso sangue. E per un periodo ci riuscimmo, migliorando, ma diminuendo negli incassi.
Pare che irritassimo, in quel modo. Il pubblico non voleva identificarsi, e pare che accadesse troppo, facendo quel tipo di spettacolo. Non voleva la scritta “vietato dar da mangiare agli animali” davanti al loro bar. Non voleva ridere, voleva deridere.

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Non mi chiesero cosa sapessi fare e io non chiesi cosa volessero io facessi. Dissero che sarebbe venuto da sé, e avevano ragione. Non ero perplesso davanti ai capaci, avevo da tempo smesso di cercare di non sentirmi incapace: vedevo atleti e giocolieri, assiomatici nei movimenti, pagliacci dotati del giusto gusto macabro, artisti capaci di stupire. Finimmo per essere tutti presentatori, ma non a turno: quando qualcuno aveva voglia, presentava. A me piaceva fare l’ospite, sentirmi sempre appena arrivato. All’inizio di ogni spettacolo stavo in disparte, ed entravo all’improvviso, quando mi andava. Talvolta miglioravo il numero, talvolta lo peggioravo, ma anche questo non era detto, visto che non c’erano scalette precise. Se ci ritrovavamo accampati vicino ad un campo di carote, le carote entravano a far parte dello spettacolo. Se eravamo vicino ad una fabbrica di vasi poteva essere che tutto si trasformasse in novanta minuti, o due ore, o di più, di vasi spaccati in testa o fatti esplodere. Qualcuno raccoglieva poi i pezzi, una donna di noi entrava in scena e veniva corteggiata con i cocci. Magari a soli versi gutturali o imitando un pollo o un tacchino. Io ero ospite, entravo nei numeri e talvolta rimanevo lì, facevo la dissolvenza tra una bestia e l’altra. Combaciavamo.

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C’era Alessio La Carmencita, con cui passavamo la maggior parte dei pomeriggi: io, lui e ccc. Poco da dirci, ma davamo lo stesso peso al silenzio. Tutto rimaneva un grosso silenzio. Con le nostre menti svuotate, già da tempo, era come avessimo perso il tatto, l’udito o la vista, ed amplificato gli altri sensi, anzi un senso solo: durante gli spettacoli, entravamo in trance. Non esisteva ieri, non esisteva domani, non esisteva il pomeriggio. Avevamo imparato. Niente ansia, niente blocchi di fronte al vuoto di idee che precedeva le apparizioni. Solo la notte, a luci spente – ché le direttive dicevano che non ci sarebbero servite più di una manciata di lampadine – lo schifo si riprendeva quello che eravamo riusciti a toglierli, infettando il fiato, gli sguardi, i rumori. Stanchi e calmi, era l’unico momento, ogni giorno, in cui ci riunivamo tutti. Né complimenti né commenti né prese in giro. Come i piccioni sulle grate della metropolitana, appollaiati. Nessuno sapeva niente di meditazione, non avevamo libri. Anzi: nessuno sapeva niente di niente. Quello che facevamo era il residuo minimo ed incancellabile di ciò che eravamo ed eravamo stati. Eccola, la verità che aveva sovrastato la realtà: la vita precedente, i delitti, gli oblii, gli spettacoli, i gusti, le fissazioni, la voglia di annullarsi avevano un’unità di misura comune, che in quel circo, in quella compagnia, poteva esistere senza forma, in quelle notti, in uno stanzone buio, tutti insieme. Io fumavo e seguivo gli occhi di tutti. Uno ad uno. La mia bocca aggettivava ma non sempre pronunciava.

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Le nostre libertà iniziali furono quattro: un nome, un costume, una giorno e un mese di nascita, ma non l’anno, e un nome per la compagnia. Con i nostri nuovo-me ancora abbozzati, tutti notammo che l’addetto aveva scritto male compagnia, dimenticando la i: compagna. Ci chiamammo Circo Compagna. E sempre con i nostri nuovo-me ancora abbozzati, decidemmo tutti la stessa data del vecchio calendario. Qualcuno aveva notato che eravamo nati tutti in anni pari, tutti in anni bisestili: ventinove febbraio. Così saremmo invecchiati insieme, e invecchiati più lentamente. Tutti tranne Little Lu, che sembrava non avanzare mai. Sembrava sempre una dodicenne che ne dimostrava almeno sedici, mentre io perdevo i capelli e a ccc si spegnevano gli occhi. C’era poca differenza tra i compleanni segnati sul calendario e quelli sottilissimi tra un ventotto e un uno. Approfittavamo ogni anno della mezzanotte che li divideva, con piccole torte individuali preparate secondo ricette del luogo. Nel silenzio, qualcuno ne raccontava gli ingredienti, se si sapevano, e la storia, se c’era.

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Sempre il primo giorno, scelsi i miei vestiti, sapendo che non avrei potuto cambiarli. Scelsi dei pantaloni a righe verticali d’identica larghezza, bianche e nere. In realtà erano grigie e nere, ma sotto le luci il contrasto aumentava, e la notte combaciavano col cielo e la luna come se fosse stata usata per disegnare delle strisce. Scelsi una camicia anch’essa a righe, più fitte e distorte: fini tonalità scure irregolari di rosso, verde, blu, arancione, viola su fondo bianco. Tenni gli stivali dell’istituto, per un eccesso di filosofico desiderio di continuità plurivalente. In poco tempo la mia mise si arricchì di macchie di caffè, virgole di cenere tolta male, fiondate di cibo, sostanze segrete ed altre fin troppo conosciute, tagli, cuciture, impronte di inchiostro, polvere, colore asportato dal sapone.

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Non le stava interessando l’elenco. Non il tatuaggio. Non me. Quella donna era lì a fare il suo lavoro: tenermi compagnia in una stanza e poi iniettarmi del veleno. Prezzi modici e senza codici: vieni qui e porta il kit medico. Il fatto era: dopo che il Circo Compagna venne smantellato, insieme a molti altri in nome di una rinata fiducia nell’umanità inculcata dai nuovi regimi spersonificati e delocalizzati, venimmo lasciati liberi. Liberi di tornare nelle città, di riacquisire le identità archiviate, di innamorarci, di lavorare, di ingrassare, di seguire la moda, di corteggiare, di guardare negli occhi qualcuno, di consumare. E tutto era cambiato, in quegli anni, fuori dalle gabbie, ma tutto era rimasto uguale. In prigione ero obbligato a stare con me stesso, la persona che io avessi più detestato, adeguandomi a parlarci: sentivo le sbarre, sentivo la mancanza di vetri alle finestre, sentivo la fame, sentivo ogni filamento di tempo. Nel circo io ero diventato me stesso, ero diventato le sbarre, le parole, i vestiti, le macchie, gli occhi con cui guardavo gli altri e quelli con cui gli altri guardavano me. Il confine tra noi e il pubblico aveva direzione, ma non senso: noi avevamo i veri occhi su di loro. Ieri ho visto i miei pantaloni nella vetrina di un negozio prendi tre paghi due e un artista di strada molto più bravo di me. Tre settimane fa sono uscito, e già ccc, Alessio La Carmencita, Little Lu e i tre tizi con la maschera da teschio se ne sono andati definitivamente. E io e gli altri ce li siamo tatuati. Adesso tocca a me: ho scelto una siringa con della roba giallo pastello dentro. La donna a cui non importa me la sta iniettando. Le ho dato i numeri di telefono degli altri. Me ne vado con le parole con cui arrivavo al centro della pista.

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Buonasera a tutti, mi dispiace interrompere, ma cercavo moneta da cambiare. Mi chiamo BBB. Per cosa sta BBB? Sta per Bye Bye BBB. E per cosa sta BBB? Ditemelo voi.

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