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Tutti “zingari”?

A seguito del terribile duplice omicidio di due senegalesi a Firenze, e dello stupro inventato dalla ragazzina di Torino (con annessa accusa ai rom), Filippo Facci, giornalista di Libero, su Il Post ha pubblicato un intervento i cui contenuti sono chiari sin dal titolo: “Siamo razzisti? Sì”. Si parla di rom e l’aggancio con il circo scatta quasi in automatico, un po’ per abitudine e un po’ perché fa molto colore.

Moira Orfei

In un passaggio Facci scrive: “Ed è un fatto, pure, che la maggior parte dei rom dipende dalla beneficenza statale e che i loro livelli di scolarità sono inesistenti, spesso vivono in caseggiati senza né acqua né elettricità, i loro mestieri tradizionali sono scomparsi, campano spesso di furti ed elemosina e in parte di economia marginale, tipo raccolta di ferro vecchio e cartoni, vendita per strada di fazzoletti e di fiori. Qualcuno fa ancora il giostraio, trascina piccoli circhi, le famiglie Togni e Orfei sono di origine sinti. La gente comunque non li sopporta, e anche i più tolleranti – a parole – girano al largo, e se li incrociano stringono i figli contro di sé e con essi i cordoni della borsa”.

Foto tratta da Zingari di Dragoljub Zamurovic (Rizzoli)

Su cosa si basa il giornalista per avvalorare una tesi di questo genere, cioè l’origine sinta dei Togni e degli Orfei? Nel secondo caso forse sulle dichiarazioni di Moira Orfei, più volte riprese dalla stampa di costume. Ma quali sono i legami documentati fra sinti e circo in Italia?
Partiamo dalle pubblicazioni. Alcune brevi autobiografie sulla vita dei sinti a partire dai primi del ‘900 esistono e sono consultabili da tutti. Si tratta di Sinti: un modo di vivere (Brignolo, 1980), Strada, patria sinta. Cento anni di storia nel racconto di un saltimbanco sinto (De Bar, 1998), La casa con le ruote. O ker kun le penijà (Niemen, 1995), Storie e vite di Sinti dell’Emilia (Torre, Relandini et al. 2005). Ci si trovano tracce di circo in queste autobiografie? Quasi per niente. “I riferimenti sono agli spettacoli di piazza di inizio secolo, al teatro ambulante, al mondo dei saltimbanchi, ai postoni e alle prime arene e si parla del circo dal punto di vista di chi non ne è più parte da diverso tempo, perché a seguito di vicende familiari o della crisi di questa forma di spettacolo ci si è visti costretti a comprare mestieri diventando giostrai; in tutti i testi emerge il rimpianto e l’orgoglio per un periodo in cui si era considerati artisti piuttosto che zingari”. Così spiega Paola Trevisan, docente all’università di Verona, che ha approfondito l’argomento nel corso di una lunga ricerca sui sinti, autrice anche di un lavoro importante come La persecuzione dei Sinti e dei Rom durante il regime fascista. “Proprio questi racconti mi hanno spinto a consultare la bibliografia italiana sulla storia del circo e, con un certo stupore, ho constatato che i sinti non sono quasi mai citati, mentre compare saltuariamente la parola “zingaro”, usata spesso in senso dispregiativo”. In particolare lo storico del circo Alessandro Cervellati ha spiegato che raramente gli “zingari” possiedono un circo poiché preferiscono altre attività sempre itineranti, riservando solo qualche riga di passaggio agli “zingari” ammaestratori di orsi.

Foto tratta da Zingari di Dragoljub Zamurovic (Rizzoli)

“Neppure Giancarlo Pretini, enciclopedico conoscitore del mondo della piazza, nomina mai i sinti, ma fa solamente riferimento a “zingari montenegrini” che animano le Fiere con le loro musiche e i loro balli”, sostiene Paola Trevisan. “Molti sono gli studiosi (anche Paladini Volterra e Serena) propensi a sostenere che molte specialità circensi sono nate all’interno del variegato mondo delle fiere, risultando una rielaborazione o una trasformazione dei cosiddetti spettacoli popolari di piazza. Il mondo della piazza, che è andato scomparendo intorno agli anni ’60-’70 del 900, ha visto la presenza anche dei sinti, i quali hanno trovato nelle fiere e nelle sagre luoghi ideali di ritrovo e di sussistenza. I sinti che hanno messo per iscritto la propria storia raccontano che i propri genitori o nonni incontravano, lungo i loro itinerari, anche altre famiglie circensi di origini sinte che però avevano già dei veri e propri circhi con il tendone. Queste ultime avevano fatto la scelta di presentarsi ai fermi quasi esclusivamente come “artisti”, marcando già una differenza rispetto a quelle famiglie sinte che avevano piccole arene da saltimbanco”.
E’ nel volume di Alberto Zucca (1902) Acrobatica e Atletica, formidabile descrizione di quella particolare arte del corpo da tempo sviluppata nel nostro Paese, ma che nella seconda metà dell’800 veniva praticata nelle palestre del Nord Italia, che compare per la prima volta in Italia l’etnonimo sinti, insieme ad un breve accenno alla loro lingua e alle esibizioni con cui intrattenevano il pubblico. “La sua conoscenza diretta degli artisti di acrobatica e di atletismo offre al lettore un’interessante visione tutta interna al mondo della piazza”, dice Paola Trevisan. Particolarmente interessante è il contesto in cui si parla di sinti, ma Alberto Zucca arriva a concludere solo che sono molte le cose che accomunano “dritti” e sinti perché “entrambi si collocano nella fascia più bassa fra gli acrobatici, quella dei saltimbanchi girovaghi”.
Anche un’altra autrice, Litta Modignani, che in un volume del 2002 si è occupata della minuziosa ricostruzione delle genealogie delle famiglie circensi, scorge legami matrimoniali tra palestranti, dritti e sinti, avvenuti soprattutto nella seconda metà dell’800, ma – assicura – sono appena percepibili.
Ma non c’è solo questo aspetto. Tira una brutta aria per tutti quando nei confronti delle minoranze, e in particolare della gente del viaggio, scattano le rappresaglie e si innescano i luoghi comuni in salsa razzista. Zingaro è termine che ormai nel linguaggio comune ha assunto una connotazione negativa, quasi un marchio d’infamia, che in tempi di multiculturalismo stride parecchio. Sinti e circo, infine: non è per prendere le distanze, ma anzi è per valorizzare le diverse storie di ciascuno, che è giusto precisare che l’accostamento è abbastanza forzato. E questo attestano gli studi fin qui noti, anche se resta ancora parecchio da approfondire.

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