di Alessandro Serena
Quest’intervista è parte del progetto Il circo italiano a Monte Carlo, che racconta i vincitori tricolore della più importante manifestazione circense al mondo. Scopri tutti i video, gli articoli e le interviste.
David Larible è considerato fra i più grandi clown del mondo e della storia. A Monte Carlo è stato l’artista che più di ogni altro ha portato in auge l’uso della standing ovation, ora molto diffusa. Ma anche uno fra quelli per i quali il Festival coincide con le pietre miliari della propria parabola.
Nel 1987 a Monte Carlo sei stato un outsider.
Il mio rapporto con questo grande evento è viscerale e molto sentito. Debbo moltissimo al Festival e sono molto legato a S.A.S. il Principe Ranieri e la Principessa Stéphanie. E pensare che tutto ebbe inizio in maniera inaspettata. A fine 1987 ero ancora agli albori della mia carriera, facevo delle piccole apparizioni al Krone, quando mi chiamò un agente chiedendomi se volessi partecipare all’edizione del 1988. Quasi pensavo ad uno scherzo. In effetti era successo che i clown già ingaggiati, all’epoca molto affermati, Eddie Sosman e Petit Gougou (ora presentatore), avevano preferito non occuparsi delle pause durante il montaggio degli attrezzi. Avrei dovuto, insomma, fare il lavoro “sporco” e iniziare il più delle volte fra il pubblico per permettere agli inservienti di preparare i numeri successivi. Mio papà mi consigliò di partecipare: «Non ti conosce nessuno, il rischio è minimo». Grande maestro di vita e arte. Accettai la sfida e cercai di creare qualcosa di nuovo, iniziando le “riprese” tra il pubblico sulle gradinate per poi arrivare in pista e continuare. Questa tecnica era poco comune all’epoca.
Come è stato il tuo approccio al Festival?
Quando arrivai a Monte Carlo, aveva un ruolo importante Eduardo Murillo, che mi diede tanti consigli utili. Così come fece Sergio, allora presentatore, con un’eleganza impeccabile, che mi prese sotto la sua ala protettrice ed ebbe un’importanza notevole nel successo di quell’anno. Durante le prove cercavo di fare in fretta, mi sembrava quasi di dare fastidio. Ma in realtà ebbi tempo e attenzioni uguali a quelle riservate a tutti, per provare l’orchestra e le luci. Queste ultime anche per la presenza della TV, molto importante all’epoca, collaborando con la quale appresi ancora molto per la mia formazione. Fu una settimana di grandi soddisfazioni, ma anche molto formativa. Con incontri, conversazioni, dialoghi con persone che io avevo sempre ammirato e che ti venivano a parlare da pari. Mi sentivo come un appassionato di calcio che si mettesse a parlare con Roberto Baggio.
Il risultato fu notevole.
Una sorpresa! Il pubblico mi accolse con empatia dal primo giorno. Ogni volta che cominciava la mia musica, la gente mi cercava tra le gradinate. Feci delle cose nuove che piacquero molto. A quel punto ero contento e cominciai a pensare che forse mi avrebbero fatto esibire durante la serata finale, magari attribuendomi un premio minore. La sera in cui vennero annunciati i premi, nella splendida sala di quello che allora si chiamava Hotel Loews, ero seduto non distante dal tavolo della giuria e il signor Freddie Knie Sr., che ne faceva parte, mi guardava e sorrideva. Quando iniziarono la lettura dei premi minori, in effetti ne vinsi diversi. Ero felicissimo, ma Knie mi faceva cenno come di aspettare. Quando annunciarono il Clown d’Argento associandolo al mio nome, fu un tripudio. Amici e colleghi ad abbracciarmi. Io frastornato.
È stato un trampolino di lancio.
Un trofeo inaspettato che cambiò del tutto la mia vita. Cominciarono ad arrivare offerte di lavoro che si rincorsero per anni. Tra i giurati c’era Kenneth Feld, presidente di Ringling Brothers and Barnum & Bailey, il circo più grande del mondo, il quale da lì a poco mi chiese di diventare l’headliner, la stella, dei suoi spettacoli. Una svolta. Rimasi da loro per oltre tre lustri dando un’accelerazione senza uguali alla mia carriera. Per altro, una volta entrato nei ritmi del colosso americano, ogni due anni devi cambiare del tutto lo spettacolo ed inventarti numeri nuovi. Alcuni di questi, come l’Opera, l’Orchestra, i Piatti, i Campanelli, erano riusciti veramente bene e per anni non furono visti in Europa.
E il tuo ritorno a Monte Carlo?
Quando quindi venni invitato quasi dieci anni dopo a tornare al Festival, al contrario della prima volta la posta in gioco era molto alta. Adesso ero la stella di Barnum e le aspettative erano decisamente aumentate. Mi sentivo come un pittore che torna nel proprio continente a mostrare l’evoluzione della propria arte. Decisi di sfruttare tutto il mio repertorio e presentai tre grandi numeri comici diversi ogni sera. Credo che nessun altro clown lo abbia mai fatto. Per fortuna non avevo perso il contatto con il gusto europeo. Il successo fu enorme. Alla fine di ogni esibizione la gente si alzava in piedi per tributarmi una standing ovation. Da quel momento divenne poi più consueto, ma all’epoca la cosa fece sensazione. Uno dei momenti più belli della mia carriera e della mia vita avvenne proprio durante una di queste ovazioni. Cercai con lo sguardo i miei genitori fra il pubblico e li vidi commossi e quasi increduli. Mi si riempì il cuore.
Non è stata l’ultima tua presenza nel Principato.
Ebbi modo di tornare altre volte come invitato non in competizione. Già nel 1989, un anno dopo l’Argento, un fatto inconsueto che non credo sia capitato altre volte. Poi durante l’edizione del trentennale, quando S.A.S. la Principessa Stéphanie con Urs Pilz ebbe l’idea di far partecipare un gran numero di vincitori delle edizioni precedenti, senza gara. Fra i clown c’erano anche il leggendario Oleg Popov, mio cugino Fumagalli e Andrey Jigalov, che stimo moltissimo e con il quale ci inventammo un fuori programma, un numero insieme, che colse tutti di sorpresa. Mi piace ricordare anche che nell’edizione del quarantennale S.A.S. la Principessa Stéphanie mi diede l’opportunità di presentare il mio spettacolo intero al Teatro Principessa Grace. Un’altra grande emozione esibirsi di fronte ad una platea quasi esclusivamente composta da colleghi ed operatori.
Cosa puoi dirci del Principe?
Devo molto a Monte Carlo e a tutta la famiglia principesca. Con S.A.S. il Principe Ranieri avevo un legame molto speciale, bontà sua mi aveva preso in simpatia. Era una persona con cui era piacevole parlare di circo, perché ne capiva. Mia madre mi aveva raccontato che, negli anni Cinquanta, quando lei e mio padre lavoravano con il loro piccolo circo a Ventimiglia, una domenica pomeriggio arrivò una limousine nera. A bordo c’erano il Principe Ranieri e sua madre, venuti a visitare un piccolo complesso! Ranieri era un grande appassionato. Quando poi lo conobbi si instaurò un rapporto davvero speciale. Un episodio che non dimenticherò mai è stato il matrimonio di S.A.S. Carolina con Ernesto di Hannover. Ero fra i pochissimi invitati e mi sentivo un po’ fuori posto accanto, per esempio, a Karl Lagerfeld col suo ventaglio. Ma Monsignore mi fece sentire a mio agio con il suo umorismo ed il suo calore.
Come definiresti Monte Carlo?
È sempre stato un punto di arrivo per le nuove generazioni di artisti circensi. E allo stesso tempo un punto di partenza. Ovvero uno stimolo. Sono tanti i giovani che provano ore e ore col sogno di parteciparvi un giorno. A loro dico: mettetecela tutta, inseguite i vostri sogni. È importante avere obiettivi e traguardi, perché sono quelli che ti fanno andare avanti. La mia esperienza a Monte Carlo non solo ha lanciato la mia carriera ma ha anche definito il mio percorso artistico, insegnandomi l’importanza della continua evoluzione e del perfezionamento delle proprie abilità. Non bisogna mai pensare di essere arrivati e che il proprio lavoro sia già perfetto. Se tu sei soddisfatto di quello che sei, cessi di essere un artista. Io penso che persino Leonardo, se potesse, si metterebbe a fare ritocchi e cambiamenti anche alla sua opera più nota, la Monna Lisa.