Uno spettro si aggira per le strade e per le piazze di Milano. Il suo nome è Politicamente Corretto. Giuliano Pisapia, figlio di un illustre giurista che insegnava Procedura Penale all’Università degli Studi di Milano (e di cui sono stato allievo anch’io, benchè assai negligente), è uomo di vasta cultura che in politica predilige la sinistra di piazza. Malgrado questo, o magari proprio per questo, i miei concittadini lo hanno eletto sindaco a conclusione del mandato di Letizia Moratti. Un mandato difficilissimo, da far tremare le vene e i polsi a chiunque. Eppure si vocifera che, tra le prime iniziative della nuova giunta, ne sia inclusa una sintetizzabile così: “Circo in città sì, animali in città molto meno”. Qualche cammello magari sì. Ma noie si annunciano per chi oserà varcare le sacre mura dell’antica Mediolanum portandosi dietro un elefante o un leone.
Non è un film già visto, è un film già stravisto. Una politica che nasce e fa proseliti attraverso l’arte della vociferazione in piazza non può non avvalersi dell’appoggio degli animalisti, non troppo vincenti quando si tratta di operare quella cosa scocciante ma democratica che è chiedere il voto alle urne e tuttavia maestri nell’arte di far finta di sembrare un’infinità quando sono sempre gli stessi. Alla tentazione di strizzare l’occhio a costoro ha ceduto per un attimo persino la mia amica Michela Brambilla, che se non mi sbaglio appartiene alla coalizione (ammesso che si possa chiamare ancora così!) del centrodestra: come dunque rimproverare chi, con gli urlatori della piazza, ha dimestichezza quotidiana?
Tutto come da copione, fin qui. La domanda più seria che si dovrebbero porre gli amici circensi, fra uno spiantare e un altro – e fra un litigare e un altro, diciamo la verità! – per quanto riguarda la piazza di Milano, dovrebbe essere un’altra, e precisamente questa. Si sa benissimo che i politici, aldilà di sbandieramenti di ideali che lasciano il tempo che trovano, non fanno mai niente per niente. Quindi, quale è agli occhi dei nuovi signori di Milano il “prezzo” di un elefante? In altre parole: il consenso verde – chiamiamolo così, anche se mi pare di dargli troppa importanza – vale il sacrificio di numeri di animali che fino ad oggi sono stati il pilastro degli spettacoli circensi senza che questo paghi in termini di dispiacere da parte del pubblico? Cinquant’anni fa, quando il mio caro Darix Togni piantava lo chapiteau in ogni prato accessibile di Milano suscitando le giustificabili lamentele di circhi minori che a loro volta reclamavano spazi per la loro sopravvivenza, la domanda non si sarebbe posta.
Bastava che i bambini vedessero non dico un elefante, ma un campino con qualche quadrupede attorno perchè si mettessero a frignare coi genitori per essere portati al circo. Uno di quei bambini ero io, e so di cosa parlo. Oggi quella città, di cui ho parlato nel mio libro Quando Milano faceva faville e su Circo in una serie di puntate, è molto lontana da quella che vota Pisapia. Ho ricordi splendidi degli anni ’70, quando poteva accadere che il Medrano di Leonida Casartelli potesse trascorrere più di due mesi nelle storica zona delle Varesine accumulando incassi da far felice un imprenditore circense per una vita e, a poche settimane di distanza, sotto Natale, il circo di Cesare Togni potesse affrontare a sua volta il giudizio di un vasto pubblico non stanco di quest’arte facendo tirare un sospiro di sollievo da far vibrare un grattacielo – io c’ero, e posso testimoniare – al mio buon amico che Dio sa quanto ne aveva bisogno. Però la domanda è questa: lontana, sì, ma quanto?
Certo nell’ultimo decennio esperienze positive si sono alternate a esperienze in taluni casi davvero negative. Ho visto amici proprietari di circhi di serie A mordersi le mani per certi errori di valutazione fatti in gennaio, mese divenuto ormai poco consigliabile per le piazze di Milano non solo per via dell’esodo in massa dovuto alle vacanze invernali in montagna ma anche a un certo blocco mentale che induce i milanesi a uscire poco di casa fuorchè nei giorni di sabato e domenica. Blocco dovuto al freddo e alla nebbia mentre dentro casa c’è comunque il televisore pieno di canali; blocco dovuto ai mezzi di superficie e anche alla metropolitana, che in quel periodo sciopera spesso e volentieri. Io ricordo un anno lontano in cui il Circo di Moira Orfei, a Milano per Natale, ebbe tale accoglienza da sostare con il proprio chapiteau fino a metà febbraio. Neppure adesso quel circo, per verità, omette di far sosta anche a Milano in una piazza che gli è ormai consueta chiamando un pubblico con cui ha stabilito una certa complicità. E’ comunque vero che città come Roma o come Napoli offrono ai grandi circhi maggiori garanzie.
Oh, intendiamoci: di circo si parla tanto anche a Milano, e in particolare in questo periodo, ma attraverso la mediazione di spettacoli – molto enfatizzati, peraltro – in cui l’arte circense si coinvolge o si lascia coinvolgere (decidete voi!) in diversi modi. Circo sì, ma anche teatro; circo sì, ma anche commedia musicale; circo sì, ma anche balletto. Su un giornale uscito nei giorni scorsi a Milano ho visto un titolo, “Circo o Danza?”, il quale invitava alla lettura di un testo per nulla polemico che tuttavia sottolineava, con certe argomentazioni, il dubbio espresso all’inizio. Su questa contrapposizione – Circo Classico e Circo Contemporaneo – si sono spese, anche col mio modesto contributo, fiumi di parole e non mi sembra il caso di tornare sul discorso in questa sede. Anche perchè la domanda chiave, ancora una volta lo ripeto, è un’altra. Quanto vale a Milano un elefante in spicciola moneta di mercantilismo politico? Davvero una cultura che si autoproclama egemone può, con uno schioccar di dita assessoriale, cancellare una antica affezione per una antica arte che è l’unica, ripeto l’unica, ad assemblare tre generazioni in un medesimo applauso? Davvero il mondo circense può continuare a rispondere come ha sempre fatto, piantando e spiantando con elefanti appresso magari a dare una zampa o una proboscide e lasciando la parola ai risultati?
Io mi limito a parlare della mia città. E ricordo gli anni in cui Massimo Alberini era immancabile a ogni debutto circense di una certa importanza e io non solo mi intrattenevo con lui dopo ogni spettacolo ma collezionavo i suoi articoli perchè lì, sul Corriere della Sera, c’era tanto da imparare. Oggi quello stesso giornale è capace di far passare sotto silenzio l’intero periodo in cui un circo come il Medrano fa sosta nella metropoli. Ma concedetemi una riflessione. Quando vedo in un luogo storico della mia città troneggiare quel monumento alla trivialità che è il DITO di Cattelan, e quando penso quale cultura dell’immondizia gli faccia da sostegno – e non parlo solo della sinistra, sia chiaro: il meraviglioso invito a ficcarselo dove sapete inizia la sua storia nella Milano del centriodestra! – allora penso che un segnale pulito come l’antico chapiteau, ricco ancora di quella strana popolazione che si chiama mondo dircense, allora dico che quei due segnali sono in totale disaccordo: o si accetta il DITO che si pretende arte o si accetta il CIRCO che è arte da millenni. Ma questa è cronaca di giorni tristi. Milano ha visto anche altre giornate, e non solo le famose Cinque in cui si è combattuto per la libertà.
Capisco gli amici circensi che diffidano di Milano, ma di invitarli a sventolare bandiera bianca su quel loro chapiteau reduce da miliardi di battaglie quotidiane proprio non me la sento.
Ruggero Leonardi