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Milano all’incirco un secolo fa

Stefania Bianchi, l’autrice di Milano all’incirco un secolo fa, si è laureata in Scienze dei beni culturali presso l’Università degli studi di Milano dove ha anche conseguito la laurea magistrale in Scienze dello spettacolo con una tesi in Storia dello Spettacolo Circense e di Strada. Si è anche occupata dell’organizzazione di eventi culturali presso l’ufficio cultura di un ente pubblico e attualmente collabora con un’associazione culturale per un progetto riguardante la valorizzazione del territorio.

Milano all’incirco un secolo fa

Trovare il diario di un uomo del passato può rivelarsi una delle cose più intriganti per un contemporaneo, soprattutto se questo avviene in modo del tutto casuale.

Era un tiepido pomeriggio di maggio, un copywriter se ne stava impalato davanti alla finestra del suo ufficio con la fronte appoggiata al vetro, annoiato guardava fuori cercando di trovare un claim per la nuova campagna pubblicitaria. Improvvisamente i suoi pensieri furono interrotti dal suono del cellulare, lesse sul display il nome di Alessio, l’architetto e amico d’infanzia incaricato di seguire i lavori di ristrutturazione del suo nuovo appartamento in via Orefici a Milano. “Ciao Gio, raggiungimi alla svelta, c’è una cosa che devi assolutamente vedere”. Giorgio non fece in tempo a chiedere spiegazioni, Alessio aveva già riattaccato com’era solito fare dopo aver detto il minimo indispensabile. Non restava che raggiungerlo in fretta. Appena varcata la soglia di casa Giorgio dovette farsi strada tra cumuli di macerie e attrezzi da lavoro, all’improvviso Alessio sbucò dal soggiorno stringendo tra le mani un quaderno. “Guarda cos’hanno trovato i muratori mentre picconavano il muro, è un diario di fine Ottocento scritto da un certo Enrico Becattini”. Di primo acchito Giorgio provò un profondo senso di fastidio, Alessio lo aveva scomodato per un libretto dalle pagine ingiallite, mentre lui stava lavorando, finse interesse e curiosità poi fece scivolare con noncuranza il diario nella tasca della giacca.

La sera arrivò senza altre “sconvolgenti novità”, era particolarmente stanco quindi rientrato in albergo si gettò sul divano, il taccuino scivolò fuori. Sorridendo pensò che Alessio fosse la persona più spontanea e genuina che avesse mai incontrato, ancora capace di apprezzare ed entusiasmarsi per le piccole cose. Distrattamente, senza un particolare interesse, afferrò il diario, lo rigirò tra le mani, sentì che emanava un terribile odore di muffa e le pagine si sbriciolavano, con cura allora cominciò a sfogliarlo, vide fotografie di alcuni artisti circensi e bizzarre caricature che ritraevano i personaggi della Milano di fine Ottocento, poi si fermò alla data del 23 settembre 1893 e cominciò a interessarsi a quello che sembrava un racconto, iniziò a leggere…

… Un timido raggio di sole filtrava attraverso l’ampio finestrone del soggiorno rendendolo caldo e accogliente, tutto era in ordine e regnava il profumo dei gladioli. Il silenzio fu rotto dai rintocchi dell’orologio che annunciavano le cinque, pochi istanti dopo suonò la campanella all’ingresso. Matilde si diresse verso l’uscio e con gesto deciso aprì la porta “Ma come mia cara, apri senza domandare chi è?” chiese sorpreso Gualtiero, il maggiordomo. “Oh vecchio brontolone, ero certa foste voi due, entrate, che aspettate!” ribatté la donna con tono di finto rimprovero, poi il suo sguardo bonario si concentrò sull’ospite tanto atteso. “Ben arrivato signorino spero abbia fatto buon viaggio sarà affamato e un po’ stanco immagino il padrone l’attende nel suo studio”. Pronunciò la frase tutta d’un fiato, senza pause né respiri poiché il bollitore del tè fischiava in modo impertinente reclamando la sua presenza in cucina.

Gianfilippo, nipote del Cavalier Fumagalli, rimasto improvvisamente orfano di entrambi i genitori, si apprestava a essere accolto nella ricca dimora dello zio paterno, un enorme e ricercato appartamento all’ultimo piano di un lussuoso palazzo nel centro di Milano, dove prima del suo arrivo le ore sembravano non trascorrere mai.

Le gambe ossute ma tenaci del ragazzo, svelate dalle corte braghette, si fecero largo oltre l’uscio e lo sguardo vivacissimo nonostante l’accentuato strabismo scrutò nei minimi dettagli l’ambiente, alla ricerca di qualcosa di familiare.

Il padrone di casa, l’illustre Cavalier Fumagalli, era un uomo di mezza età, affascinante, celibe, capace di far palpitare il cuore delle ragazze in età da marito a ogni apparizione in società, amante del lusso e del divertimento, ma anche della tranquillità che offrivano le sue mura domestiche, alla quale dovette rinunciare dopo l’arrivo di Gianfilippo, infatti, la paternale divenne quotidiana: “Una ne pensi e cento ne fai, se non ti dai un contegno sarò costretto a mandarti in collegio”, “Hai l’argento vivo addosso, non stai buono nemmeno quando dormi e poi non sta bene che un signorino dell’alta società compia simili sciocchezze” erano esclamazioni che il ragazzo sentiva spessissimo risuonare nelle orecchie.

A proposito di orecchie, in molti asserivano che tra le sue vi fosse il vuoto. Possibile? Per dimostrare o smentire la strana teoria un giorno, al cospetto dell’austero precettore, infilò una matita nell’orecchio destro con l’intento di estrarla dall’altro, risultato, di corsa al Ca’ Granda dov’era già famoso per altre imprese. Alla medicazione e al referto seguirono una sfilza di commenti che il medico rivolse all’ormai esasperato zio: “Non è stupido, ma troppo ingenuo”, “Non vede il pericolo, per lui tutto è una sfida”, “Non si preoccupi col tempo smetterà”.

Uno dei passatempi preferiti del giovane consisteva nello sfidare i gatti a percorrere la sommità delle mura di recinzione del collegio Martinitt, larghe pochi centimetri, con un equilibrio stupefacente quasi che il suo difetto visivo incredibilmente fosse un vantaggio. Restava su una sola gamba tenendo in equilibrio sulla testa una pigna di libri, camminava sui palmi delle mani, saltellava all’indietro, facendo ridere a crepapelle i collegiali, il suo primo pubblico. Adorava il suono delle risa, in particolare quelle dei più piccoli risuonavano come una fragorosa melodia, lo esaltavano appagando la sua voglia di stupire e divertire. Fra le sue imprese la più celebre, alla quale doveva il soprannome di Ambrogino, consisteva nell’arrampicarsi sui canapi delle campane della Basilica di Sant’Ambrogio fino alla sommità, provocando uno scampanio disarmonico, senza nulla di liturgico e per di più a orari non consoni. Era irrequieto e instancabile. Spesso correva per le vie della città in sella alla sua bicicletta moderna, uno dei primi mezzi circolanti con ruote pneumatiche, progettata dall’ex Martinitt Edoardo Bianchi, una meraviglia, tutti si fermavano a guardarlo, tranne quella volta che fu lui a bloccarsi.

Irresistibile attrazione, si stava svolgendo la parata di presentazione di un circo stanziatosi a Porta Genova. Il ricordo dei giorni felici della sua infanzia, quando i genitori lo accompagnavano ad assistere agli spettacoli circensi balenò limpido e cristallino, nutriva un’ammirazione sconfinata per gli artisti che animavano quel mondo parallelo, fatto di carovane, viaggi e spettacoli a non finire. Promise allo zio che per un po’ si sarebbe tenuto lontano dai guai, così ricevette il compenso e l’assenso necessari per assistere allo spettacolo.

Motivetti allegri, livree sgargianti sulle quali spiccavano alamari color dell’oro, segatura, animali esotici e artiste di straordinaria bellezza che indossavano appariscenti costumi, facevano battere a più non posso il suo cuore. Vide fare a trapezisti e funamboli incredibili evoluzioni alle quali non aveva ancora pensato, difficili e pericolose, di quelle che fanno sentire le farfalle nella pancia, tremare le ginocchia e venire il torcicollo a furia di tenere lo sguardo fisso per aria. Un brivido gli percorse la schiena alla comparsa delle tigri e dei leoni ammaestrati e il terrore crebbe quando la bella assistente del domatore iniziò la sua vorticosa danza serpentina all’interno della gabbia. La coraggiosa fanciulla piroettava su se stessa senza sosta a una velocità incredibile, al punto che Gianfilippo dovette guardare altrove per evitare il senso di nausea. Aveva i crampi allo stomaco a furia di ridere per l’esibizione delle foche acrobate e dei dispettosi clown musicali, poi inavvertitamente con gesto maldestro fece cadere la mela caramellata, acquistata durante l’intervallo, sulla tuba del gentiluomo seduto davanti a lui, che nella confusione generale non si accorse di nulla, invece, le persone che gli sedevano accanto a stento trattennero le risa. L’atmosfera era gioiosa, tutti esultavano e applaudivano, avrebbe voluto che lo spettacolo non finisse mai, era felice.

L’indomani Matilde lo trovò intento ad attraversare il lungo corridoio che dava accesso alle stanze private camminando sospeso su una fune tesa a un metro di altezza, sotto lo sguardo vigile e preoccupato di Gualtiero che ripeteva a più riprese: “Signorino la prego stia attento, potrebbe slogarsi una caviglia, stia attento non vorrà mica rompersi l’osso del collo”, ma Gianfilippo non lo ascoltava, cercava di emulare quel mondo che da sempre lo affascinava e del quale avrebbe voluto far parte. Ogni giorno una nuova avventura, scorrazzava per casa sul monociclo regalatogli in un momento di debolezza dallo zio e intanto faceva roteare in aria arance, mele e uova suscitando la rabbia di Matilde quando per sbaglio faceva cadere queste ultime, ma lei gli voleva talmente bene che dimenticava il pasticcio in un attimo.

Leggeva con avidità “Yorick” il periodico concertistico a carattere internazionale che nello studio del Cavalier Fumagalli non mancava mai, essendo quest’ultimo un amante degli spettacoli di varietà. Le descrizioni delle mirabolanti imprese circensi che avevano luogo sulle tavole dei palcoscenici milanesi erano le sue preferite, ritagliava articoli e fotografie per poi riporli con cura in un cassetto all’interno di una busta. Capitava spesso che tornasse a leggerli, il cuore gli batteva forte, non udiva nemmeno la voce di Matilde che lo chiamava per il pranzo, sognare lo portava lontano.

Un giorno sentì bussare alla porta della sua stanza, “Gianfilippo, credo che tu sia abbastanza adulto, questa sera verrai con me al Teatro Eden, dovrai vestirti da vero gentiluomo e comportarti come tale, è frequentato da tutta la Milano che conta, sarà una sorta di debutto in società, non tradire la mia fiducia”. Lo zio uscì richiudendosi la porta alle spalle, a Gianfilippo ricordò l’uccellino dell’orologio a cucù in salotto, il quale allo scoccare di ogni ora faceva capolino dalla porticina, emetteva la sua sentenza sonora e in un battibaleno scompariva di nuovo dietro la stessa. Dopo l’annuncio il ragazzo non stava più nella pelle e passò l’intero pomeriggio a ripassare le principali regole del galateo aiutato da Gualtiero. La sera arrivò, la carrozza lasciò zio e nipote davanti all’ingresso del teatro; il ragazzo era talmente emozionato che gli sudavano in continuazione le mani.

Una volta varcata la soglia, il tempio del divertimento di Largo Cairoli si manifestò in tutto il suo splendore. Gianfilippo rimase colpito dall’opulenza e dal luccichio del salone teatro, gli venne la pelle d’oca, che spettacolo! La platea gremita odorava di sigaro e pregiate essenze francesi, era piacevolmente rumorosa, in un attimo li avvolse. Le signore accomodate ai tavolini erano tante allegre macchie di colore pronte a lanciarsi occhiate di sfida, mente esperti camerieri nero vestiti reggevano in perfetto equilibrio vassoi colmi di ogni bontà. Aveva sentito parlare delle colonne di ghisa rossa, ma dal vero facevano davvero impressione, stava già per arrampicarsi su una di esse quando lo zio lo afferrò per la collottola “Non pensarci neanche lontanamente non è davvero il caso”. Si rilassò e notò i balconi con le ringhiere in stile liberty, anche perché la gonna di una signorina si era impigliata in una ricca voluta di ferro battuto e sembrava non volerla abbandonare per nessuna ragione, i globi di luce illuminavano a giorno la sala svelando gli intrighi amorosi e mentre osservava i soffitti affrescati, andò a sbattere contro un cameriere facendo volare in aria il vassoio di quest’ultimo. In un lampo calò il silenzio, tutti gli occhi erano puntati su di lui. Si scatenò l’ilarità generale e il disappunto del Cavalier Fumagalli che alzando gli occhi al cielo cominciò a pentirsi di aver portato con sé il nipote. Superato il momentaneo imbarazzo i due presero posto al tavolino loro riservato, ma da subito Gianfilippo si dimostrò insofferente e lo zio se ne accorse. “Che ti prende non sei capace di star seduto composto e goderti lo spettacolo, cosa vuoi da bere una Gassosa?” “Zio, io vorrei godermi lo spettacolo, ma quel cesto di frutta sulla testa della signora lì davanti me lo impedisce”. La donna si voltò di scatto con aria stizzita facendo barcollare le primizie che aveva in capo e Gianfilippo rincarò la dose: “Mi perdoni signora, ma non le fa male il collo con tutto quel peso, è passata dal Verziere?”. La signora, in realtà zitella, appartenente all’alta borghesia milanese, diventò viola di rabbia e strinse le labbra scarlatte in una smorfia di disappunto, riuscì solo a sibilare: “Signorina! Screanzato!”. Il Cavalier Fumagalli non sapeva più come scusarsi e tutti gli astanti ridevano sotto i baffi impomatati. A Gianfilippo non sfuggì questo particolare e si sentì protagonista. A un tratto si levò una voce: “Buonasera, miei cari ospiti, siate così gentili da far ridere anche me” era l’austero proprietario dell’Eden, Stabilini, passato per salutare l’amico Fumagalli. “O buona sera Gasparo, si tratta solo di una sciocchezzuola uscita dalla bocca di mio nipote” minimizzò. “Sarà pure una sciocchezza, ma ha suscitato un certo trambusto, con i problemi che ho, avrei tanto bisogno di una sana risata. Il lavoro non mi dà tregua, fra tre giorni dovrebbero debuttare due eccentrici, dico dovrebbero perché uno di loro questo pomeriggio si è infortunato durante le prove, una bella gatta da pelare, ho appena finito di parlare con il loro agente. Si tratta di un numero acrobatico con un coup de théâtre finale, ha ottenuto enorme successo persino al Wintergarten di Berlino, se dovrò annullare il tutto sarà un vero disastro”.

Gianfilippo saltò in piedi e disse a Stabilini: “Io so fare piroette e salti mortali a ripetizione”.

“É vero quello che dice?” domandò Stabilini al Cavalier Fumagalli che sarcasticamente rispose: “Il problema è fermarlo”. Il proprietario dell’Eden rimase colpito dall’intraprendenza del giovane e scherzando disse: “Allora posso contare su di te”, poi si congedò augurando buon proseguimento di serata agli astanti. Intanto sul palcoscenico una signorina dalla dentatura certamente invidiabile eseguiva svariate acrobazie al trapezio reggendosi con la sola forza di mascelle e mandibole. Durante il viaggio di ritorno Gianfilippo ripensava a ogni singolo dettaglio di quella fantastica serata, alle chanteuses, ai velocipedisti, agli eccentrici e alla rissa scaturita fra due signorotti che si contendevano le moine di una ballerina. Un’idea stava prendendo corpo prepotentemente nella sua testa e non poteva fare a meno di sorridere tra sé.

L’indomani si svegliò poco prima di pranzo, erano rincasati piuttosto tardi. Il profumo delle lenzuola pulite lasciate asciugare al sole e le canzoncine cantate da Matilde, mentre posava rumorosamente le stoviglie sulla tavola, erano piccoli piaceri che lo mettevano di buon umore. Si alzò dal letto, si affacciò alla finestra e si stiracchiò per poi ricomporsi, mangiò poco, quell’idea era sempre più prepotente così si precipitò all’Eden.

Stabilini lo riconobbe subito e volle presentargli Mr. Hyde, l’agente degli “Holly Dolly”, un uomo sicuro di sé, con un sorriso smagliante e un profumo molto forte di acqua di Colonia che penetrò con prepotenza le narici del ragazzo.

“Sono qui per aiutarvi, so che avete bisogno di me!” disse con sfrontatezza Gianfilippo. Stabilini rise di gusto. A questo punto Mr. Hyde con un gesto sicuro afferrò una sedia, la girò in senso contrario, vi si sedette cavalcioni, sfilò con noncuranza una sigaretta dall’astuccio metallico, l’accese e soffiò una gran nuvola di fumo sul viso del ragazzo e fissandolo negli occhi gli chiese: “Che sai fare?”. Rimase colpito dal racconto della scalata delle torri campanarie di S. Ambrogio, quindi disse lapidario: “Vieni con me ti porto dagli artisti così potrai provare con loro e vedremo se sarai all’altezza, il tempo stringe”.

I retroscena del teatro erano qualcosa di sorprendentemente affascinante e caotico, in prossimità dei camerini delle chanteuses si percepivano odore di cipria, profumo e capelli bruciati dall’intenso lavoro dei parrucchieri che si destreggiavano abilmente tra arricciacapelli forcine e grida “Tocca a me, no a me!”. Dallo stanzone riservato al corpo di ballo fuoriusciva un allegro vociare civettuolo e poi finalmente si ritrovò al cospetto degli “Holly Dolly” al secolo Simon e Stephan, due giovani fratelli inglesi. Simon aveva riportato una brutta lussazione alla spalla destra a seguito di una presa mancata, per un po’ di giorni era fuori dai giochi. In un italiano approssimativo, aiutandosi con dei disegni tracciati su una lavagna, spiegarono a Gianfilippo il numero e le acrobazie che avrebbe dovuto eseguire, per la maggiore salti mortali e avvitamenti, avevano solo tre giorni e non c’era tempo da perdere. Per di più gli Holly Dolly erano molto esigenti, non volevano compromettere la fama e il prestigio guadagnati sul campo con grande sforzo e sacrifici. Figli d’arte avevano abbandonato il circo per tentare la via del varietà, poiché questa forma d’intrattenimento offriva lauti guadagni e grande visibilità. In uno dei rari momenti di pausa il ragazzo chiese ai due artisti se non sentissero la mancanza dei famigliari e dello chapiteau, Simon gli disse: “Boy sometimes is dificìle dire addio, ma is neccessary se vuoi trovare tua strada”.

I giorni seguenti le prove furono molto intense, senza sosta, dalla mattina alla sera, Gianfilippo non contava più vesciche, lividi e contusioni, tornava a casa dolorante, ma soddisfatto, nel profondo dell’animo si sentiva bene. Imparò a proprie spese la differenza tra esibirsi per diletto cercando d’imitare i professionisti e lavorare a stretto contatto con loro, dando il massimo di sé. Ciò nonostante i risultati erano incoraggianti tanto che decisero di mostrare il numero a Stabilini, il quale incredulo disse: “Il ragazzo ha davvero talento però… e sia”.

Le ripetute assenze da casa di Gianfilippo avevano insospettito sia lo zio, sia Matilde e Gultiero, erano certi che stesse tramando qualcosa e il Cavalier Fumagalli aveva un sospetto, ma poi si autoconvinse che non poteva essere così.

La sera del debutto Gianfilippo era incredibilmente tranquillo e determinato. In platea da qualche parte sapeva che era seduto suo zio, chissà che cosa avrebbe fatto se lo avesse riconosciuto. E quel pensiero lo inquietò, ma durò solo un attimo.

Dopo l’annuncio dall’enfatico presentatore giunse il momento, gli “Holly Dolly” erano il terzo numero del secondo tempo. Si aprì il sipario e ciò che si presentò alla chiassosa platea furono un gentiluomo intento a strofinare sulla manica della giacca l’orologio a cipolla, che non sembrava accorgersi degli spettatori, un baule aperto e una bambola gigante, mollemente adagiata su una sedia. L’orchestra diede il via al simpatico accompagnamento sonoro e fu così che il gentiluomo sollevò con gran fatica la pupattola per farla ballare, provocando un certo divertimento, poi maldestramente la fece cadere per terra, la trascinò come si farebbe con una pigotta di grandi dimensioni facendo molte smorfie per la fatica, per poi lanciarla in aria facendole eseguire uno, due, tre salti mortali e avvitamenti a non finire, come se il movimento fosse indotto sulla bambola per volere del damerino. Applausi e ancora applausi, una signora in prima fila aveva i palmi delle mani rossi come il fuoco. Alla fine la pupattola prese vita autonomamente, levò la maschera e si recò in proscenio camminando con le proprie gambe, storte e tenaci. Dalla platea si levarono le urla delle signore più suscettibili, nessuno credeva ai propri occhi, quello che per tutta l’esibizione era parso un fantoccio di legno rivestito di stoffa e cartapesta, in realtà era un ragazzo, incredibilmente felice di essere riuscito a stupirli. Ernesto Fumagalli nonostante il camuffamento riconobbe l’inconfondibile sguardo del nipote, tutto si fece chiaro, il suo sospetto era fondato.

A conclusione del numero, il cavaliere in smoking rincorse la bambola, la chiuse nel baule e uscì di scena spingendo lo stesso dietro le quinte fra le richieste di bis. Tutto era andato per il meglio, persino lo zio dapprima irato, si sciolse in un crescente e commosso applauso.

L’indomani i giornali riportavano la descrizione del numero, senza tralasciare i commenti positivi “La poupée vivante creata dagli Holly Dolly è oggetto di autentico entusiasmo da parte del pubblico che non si capacita di come un ragazzo possa lasciarsi sballottare a destra e a sinistra, in alto e in basso dando l’illusione di essere una bambola di pezza. Qualunque descrizione non è all’altezza dell’effetto”. Certo, non compariva il nome di Gianfilippo, poiché si parlava dell’abilità di Simon nell’impersonare una bambola dinoccolata e del talento di Sthepan nel farla ballare e vorticare, ma il semplice fatto di essere stato scambiato per un acrobata professionista lo riempiva di orgoglio. L’articolo ritagliato con cura, questa volta non fu riposto nel cassetto, bensì incorniciato.

Gianfilippo ripeté lo spettacolo per cinque serate, ma una volta che Simom ritornò in forze dovette restituirgli il ruolo, così la favola svanì.

La sera dell’ultima replica mentre tornava a casa con lo zio vide un manifesto, fece fermare la carrozza per leggerlo con attenzione. Eh sì aveva visto bene, un altro circo era arrivato in città…

La prima puntata è pronta, si è fatto piuttosto tardi, le due di notte per l’esattezza, vado a coricarmi anche se so che non chiuderò occhio. Chissà se la pubblicazione di un romanzo d’appendice sulle pagine del mio amato “Yorick” piacerà alle gentili lettrici, sono combattuto, forse non apprezzeranno la critica rivolta agli ingombranti copricapo tanto di moda, ora basta sono davvero stanco ci penserò domattina.

Giorgio chiuse con un colpo secco il diario, si sentì davvero stupido, non era stato in grado di coglierne da subito il valore, ma leggendolo fu rapito da quel mondo ormai lontano. Il fascino evocato dalle memorie di quell’uomo del passato gli avrebbe fatto compagnia per molti giorni ancora, ne era certo.

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