“Circhi e luna park, cattedrali di fede e di tradizione segni di speranza in un mondo globalizzato”: è certamente significativo il tema scelto per celebrare l’VIII congresso internazionale sulla pastorale dei circensi e dei fieranti, in corso in questi giorni a Roma. Significativo perché sin dalle prime battute è parso evidente come proprio l’esperienza di convivenza itinerante e cosmopolita vissuta in questi particolarissimi ambienti, possa essere considerata esemplare per una società segnata dal fenomeno della globalizzazione.
E non c’è dubbio che la società odierna abbia bisogno di una simile testimonianza. Lo ha detto molto chiaramente l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, inaugurando lunedì scorso, 13 dicembre, i lavori del congresso: “Fissando lo sguardo sull’uomo di oggi – ha detto – che corre il rischio di essere condannato dallo sviluppo tecnologico e dalla cultura individualista alla solitudine e all’incertezza, vi scorgiamo un grande bisogno di comunicazione e di comunione. Tenendo in conto i cambiamenti che la globalizzazione porta nelle società, sotto forma di multiculturalismo che talvolta produce divisioni e perdite d’identità, si rende necessario rieducare l’uomo a vivere la comunione e il dialogo, e restituirgli quella fraternità che porta le persone a rispettarsi, stimarsi e comprendersi, con vantaggio per la crescita di tutti nell’affermazione reciproca”.
Ed è proprio in questo che le comunità circense e fierante si propongono come luoghi nei quali “al di là delle barriere culturali e delle separazioni linguistiche e religiose, le persone si incontrano, si riconoscono fratelli e sorelle, accettandosi nelle diversità. In ciò consiste l’attualità e il valore del circo e del luna park”. Anche per tale motivo esse acquistano un valore inestimabile per la Chiesa: rappresentano una grande opportunità per la trasmissione della fede. L’arcivescovo ha richiamato in proposito il Catechismo della Chiesa cattolica, laddove si afferma che sebbene la fede sia un atto individuale e personale, poiché implica una libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio, tuttavia “nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l’esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere. Il nostro amore per Gesù e per gli uomini ci spinge a parlare ad altri della nostra fede. In tal modo ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri”.
Si comprende perciò “che ogni credente, dunque anche un circense e un fierante – ha aggiunto monsignor Vegliò – è responsabile della propria fede e di quella degli altri, con dovere di coerente testimonianza”. Un concetto questo ribadito e approfondito dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura nel suo intervento su “L’arte e l’espressione della fede al servizio della crescita spirituale del circense e del fierante”.
All’importanza della testimonianza della fede si è riferita anche una religiosa che lavora sul campo in Nicaragua, suor Charlotte Hobelmann, già coordinatore nazionale dell’ufficio per i migranti e i rifugiati della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti d’America. La religiosa, raccontando la sua esperienza negli States, si è soffermata sul grande significato ecumenico che assume il vivere insieme nella comunità circense. Le persone impiegate nei circhi, nelle fiere itineranti e nei parchi di divertimento spesso sono artisti e professionisti provenienti da nazioni diverse. Ci sono addirittura intere famiglie circensi di nazionalità diverse e di fedi diverse. “Negli Stati Uniti – racconta la religiosa – si stima che circa il quaranta per cento di queste famiglie siano cattoliche, e che altrettanto numerose siano anche quelle appartenenti a diverse confessioni cristiane”. E se a ciò si aggiunge il fatto che molti proprietari di circhi sono ebrei, e che con il continuo aumento di artisti provenienti da Asia e Africa, nelle comunità si inseriscono credenti buddisti e musulmani, il quadro è completo.
Un lavoro particolare compete al cappellano di queste comunità. Lo ha messo in luce proprio suor Hobelmann riferendosi sempre alla sua esperienza statunitense. “I cappellani e i ministri della pastorale sul territorio con cui ho lavorato negli Stati Uniti e che sono presenti in questo Congresso – ha detto – forniscono una pastorale, dunque, in un contesto interreligioso. Ad esempio, padre Jerry Hogan, il cappellano del circo nazionale, presiede una benedizione della tenda per il Big apple circus, all’inizio della loro stagione circense che comincia alla fine di settembre. Tutti sono invitati a partecipare: i proprietari, i responsabili, gli artisti, la banda, gli addetti alla luce e al suono, i venditori delle concessioni, i venditori di biglietti e l’ufficio al pubblico per citarne alcuni. Anche se il libro di preghiere per il circo che padre Hogan ha pubblicato contiene principalmente preghiere cristiane, sono state incluse preghiere interreligiose o benedizioni che fossero significative per una varietà di gruppi religiosi”.
Significativa in questo senso anche la testimonianza di suor Geneviève, delle Piccole sorelle di Gesù, che dal 1969 condivide le sorti degli itineranti, al seguito ora di comunità di circensi, ora di fiere, ora di parchi di divertimenti. Per mantenersi apriva banchetti per la pesca o stand nei quali vendeva frittelle. “Ma in questa esperienza – ha confidato la religiosa – ho imparato a conoscere i valori veri di queste comunità”. È gente innanzitutto animata da uno spirito libero e ha, dunque, un forte senso della libertà; ma ha anche un grande senso di accoglienza per ogni persona, senza limiti di razze, culture, religioni e tanto meno colore della pelle; mostra una grande fiducia nell’uomo e restituisce a ciascuno la propria dignità. Ma quel che più conta è che “da noi – dice con orgoglio – c’è un grande senso di Dio e una fede profonda. Si dipende da lui, per il tempo che ci concede; gli si chiede protezione quando si viaggia per le strade del mondo; si fa tutto quello che si può poi ci si affida a lui e si spera. Spesso mi capita di sentire: “Non vado mai a dormire senza aver prima ringraziato Dio per la giornata e per la famiglia. A lui affido tutte le mie preoccupazioni”. È difficile seguire la messa domenicale: sono giornate di duro lavoro. Ma quando si celebra la messa ci si ritrova in gran numero”. Insomma il Vangelo “viene vissuto al livello del cuore” ha detto concludendo la suora.
C’è stato un elemento che è tornato più volte in queste prime giornate di lavoro: un richiamo alle parrocchie che di volta in volta ospitano nel loro territorio le comunità di itineranti: “Apritevi – è stato esplicito l’invito di monsignor Vegliò – cogliete l’occasione della loro presenza per rinnovare l’annuncio del Vangelo dell’amore anche tra i vostri parrocchiani”.
(©L’Osservatore Romano – 15 dicembre 2010)