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Maurizio Porro, critico del Corriere della Sera

 

Maurizio Porro è critico cinematografico del Corriere della Sera e docente di Storia e Critica dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Milano. Durante la sua carriera ha assistito a moltissimi eventi culturali, milanesi e non, cinematografici ma anche teatrali: negli anni ’60, una decade prima di diventare nota firma per il quotidiano di via Solferino, Porro fu aiuto regista per Paolo Grassi e orbitò in quel quartier generale della cultura teatrale che fu l’esperienza del Piccolo Teatro. L’aver partecipato così attivamente al panorama dello spettacolo, non solo come intellettuale e operatore, ma anche e soprattutto come appassionato, lo rende voce di tutta autorità per sapere qualcosa di più relativamente alle forme di spettacolo e al loro dialoghi, ai loro scambi e ai passaggi di testimone.
Dimostrando che, in fondo, la suddivisione dello spettacolo, in generale, non esiste; che il circo non ha prestato solo suggestioni, artisti e tecniche, ma anche la possibilità di parlare una lingua più diretta sfruttandone l’estetica. E ci sfata anche il luogo comune che la curiosità non sia più pane per i giovani.

Lei è noto soprattutto come critico: può parlare di come, rispetto a quando ha iniziato a scrivere, questa figura sia cambiata e con essa il suo potere?
Le cose sono decisamente cambiate. Più che il potere è la figura del critico ad aver subìto una modifica, il potere è qualcosa che si stabilisce in seguito. Diciamo che lo spazio a disposizione del critico si è ristretto perché è venuta meno la fiducia da parte dei giornali, dei direttori. Non parlo di una fiducia personale nei confronti del critico come uomo, quanto in riferimento alla rubrica in sé.
Ma questo cambiamento non è univoco, si riscontra anche nel pubblico…
Si infatti va di pari passo: il ritmo di vita si è sveltito molto e perciò vale di più scrivere una piccola segnalazione, una sorta di mini critica che possa essere letta in un minuto, anziché “l’articolessa”, come la si chiamava un tempo, un pezzo di 70/80 righe dove si faceva molto di più che non una recensione o una votazione. Conosco persone che mi dicono di aver letto la recensione che ho scritto, la votazione che ho dato, piuttosto che segnalarmi un concetto espresso. Paradossalmente si potrebbe dare anche soltanto un voto!
Quindi, insieme alla figura del critico, sono di conseguenza cambiate anche le pagine di spettacolo?
Ovviamente, anche per altri fattori: a parte quelli che ho citato, oggi non si scrivono più recensioni tutti i giorni. Un tempo le programmazioni erano più ballerine, mentre ora si è stabilito che le prime del cinema si hanno il venerdì e quelle teatrali il martedì. Se succede qualcosa il mercoledì non se ne parla, salvo per l’importanza che potrebbe avere. E non sto parlando di modalità di lavoro dell’inizio del secolo, ma degli anni ’70, quando ho iniziato io a scrivere! Inoltre non c’è più la presenza dell’elzeviro vero e proprio, quello della critica concettosa. Poi, per fare un altro esempio, è cambiato anche il modo di affrontare e recensire i festival: prima i giornalisti incaricati di seguire grandi avvenimenti erano due o tre, ma comunque spettava al critico l’articolo di apertura, perché alla gente interessava sapere come quel film fosse stato accolto. Adesso le cose sono un po’ cambiate, perché rispetto al pezzo di cultura interessa molto di più il pezzo di colore, il gossip, la presenza di un personaggio piuttosto che un altro. Predomina tanto il sensazionalismo, poi ovviamente dipende da chi scrive, dalla qualità di persone e personaggi. Indubbiamente tra nota di colore e critica vince la prima.
Quindi se un suo studente oggi le dicesse di voler diventare critico cosa gli consiglierebbe?
Di lasciar perdere! E’ un mestiere che sta morendo, resiste ancora un po’ per il cinema, ma per il resto non ha vita facile.

Massimo Alberini

In effetti, fino a un po’ di anni fa, anche il circo godeva di un spazio di rispetto all’interno dei quotidiani, per esempio non si può non ricordare il nome di Massimo Alberini.
Me lo ricordo Alberini, lui nutriva una venerazione quasi filiale per il circo, una forte passione. Arrivava alla redazione di via Solferino con i suoi pezzi, quando ancora tutto si scriveva a mano, e si vedeva proprio quell’amore che aveva nei confronti dello spettacolo circense. Morto lui quello spazio è rimasto vuoto ed è stato presto soppiantato da altri generi.
Era un fenomeno legato più ad un singolo individuo che non all’esigenza vera e propria di dedicare uno spazio al circo?
Si. Come dicevo poco fa un tempo il giornalismo si basava molto di più sui rapporti diretti di fiducia, tradizione e gratitudine: Alberini era una figura rispettata e rispettabile che da tempo si occupava di circo, era giusto che in redazione continuasse a farlo. Poi, appunto, scomparso lui svanì anche quello spazio.
Slava Polunin
Quale può essere il motivo?
Probabilmente risponderebbero che non c’è più spazio: la televisione ha vampirizzato tutto e raccoglie in sé veramente ogni cosa, dal circo al cinema passando per le fiction. Tutte le varie meteore culturali sono state fagocitate da mamma televisione, e l’omologazione ha toccato livelli davvero bassi. Inoltre oggi il circo è, forse, meno popolare di un tempo. Se non altro nella sua forma tradizionale perché si può vedere come invece continui a sopravvivere e sia in grado di ritagliarsi spazi anche di notevole importanza sotto altre forme: mi riferisco ai fenomeni come il Cirque du Soleil, o il clown russo Slava Polunin, o ancora gli spettacoli di Daniele Finzi Pasca spesso ospiti nelle stagioni del Piccolo Teatro.
I luoghi sono importanti, e in questo momento quelli più tradizionali vengono “abbandonati” per degli spazi teatrali più comuni ma che offrono esperienze sempre nuove. Un po’ com’è successo già in passato con il varietà o la rivista.
A proposito di rivista: che cosa ha preso dal circo?
Davvero tanto, a partire dalla struttura. Così come al circo si ha una successione di numeri imprescindibile e fissa, così la sequenza dei quadri della rivista è rigorosa: prima le ballerine, poi il comico, poi il finale del primo tempo e così via. Una suddivisione quasi militaresca. Nella rivista hanno avuto accesso anche artisti di circo: ricordo le locandine di alcune riviste che riportavano la dicitura “E con..” e a seguire il nome di qualche acrobata o giocoliere.
Però permaneva una suddivisione di pubblico? Bambini al circo e adulti alla rivista?
Si, perché alla rivista prendevano parte le ballerine che spesso e volentieri erano molto succinte. La censura si esercitava in maniera vigorosa sul cinema, meno sul teatro perché era anche più difficile controllare. C’erano anche i comici, le cui battute spesso erano costruite sui doppi sensi o sull’attualità. Uno spettacolo più da adulti.
Ritornando all’importanza dei luoghi: quali erano a Milano i luoghi dedicati a questo genere di spettacolo?
Le riviste erano ospitate un po’ in tutti i teatri, ma i templi consacrati erano il Teatro Lirico (chiuso da ormai quindici anni, nonostante fosse stato sede del Piccolo Teatro e abbia ospitato alcuni importanti allestimenti di Strehler) e il Teatro Nuovo. Erano luoghi vissuti, anche in estate: ora i teatri sono chiusi quasi tutti nel periodo estivo, ma nell’Italia degli anni ’50 l’evasione la si trovava grazie ai cinema che si dedicavano ai polizieschi, e alla rivista, che in estate si colorava di toni un po’ più di serie B. Anche se proprio durante quelle estati ho avuto modo di vedere personaggi come Dario Fo o Franca Rame, allora giovanissimi!

Vittorio Gassman

E l’evasione il circo la portava in giro per i quartieri di tutta la città, a differenza di oggi che ha un luogo preciso e deputato.
Si dappertutto. E questo è stato d’ispirazione a fenomeni di commistione autorevoli e interessanti. Per esempio, negli anni ’60, Vittorio Gassman, in costante polemica contro i teatro stabili, volle portare il teatro davanti a quella fascia di popolazione non abituata a frequentare le platee. E per farlo utilizzò proprio il medium circense e il tendone: insieme alla sua compagnia, la Compagnia Italiana di Teatro Popolare, portò in numerosissime piazze (e a sue spese!) l’Adelchi di Alessandro Manzoni. Fu molto dispendioso: montaggio, smontaggio, tecnici, operatori….Un’impresa titanica anche per un personaggio bravo e potente come Gassman. E poi Massimini, attore di varietà e rivista, che girò Milano utilizzando proprio uno chapiteau e portando in giro uno spettacolo intitolato Il Salto Morale.
Anche il Piccolo Teatro aveva fatto suo il medium circense: negli anni ’70 si era avviata una politica di decentramento culturale e, per non dare spettacoli solo in via Rovello o al Teatro Lirico, presero un tendone (non lussuoso e grande come quelli utilizzati dai circhi) e girarono le periferie milanesi per portare la cultura a contatto di tutti: non spettacoli di serie B, ma titoli che hanno fatto la storia del Piccolo, come La Cimice di Majakowskij o il celebre Arlecchino servitore di due padroni.

Giorgio Gaber

Proprio a questa esperienza si ispirò anche Giorgio Gaber, quando verso la fine degli anni ’80, in un momento di super-ego, volle allestire uno spettacolo in uno chapiteau montato in piazzale Cuoco (attualmente luogo deputato a ospitare i circhi a Milano ndr). Credo quella sia stata l’unica esperienza fallimentare per Gaber; del resto il suo spettacolo era un one man show grazie al quale instaurava un rapporto diretto e colloquiale con il pubblico, qualcosa di difficile da ricreare nello spazio molto più vasto e dispersivo di un circo.
Tutti esempi che riportano alla questione di quanto lo spettacolo in generale debba al circo.
E gli esempi potrebbero andare avanti, ampliandosi di più: La Grande Magia di Eduardo de Filippo si ispira alla materia circense, all’illusionismo in particolare; registi come Peter Brook con Sogno di una Notte di Mezza Estate è circense, come lo è, delicatamente, tutto Shakespeare; Ariadne Mnouchkine ha fatto spettacoli di ispirazione circense…
Qualcosa di più serio…
Si, perché a un certo punto bisogna saper andare oltre. Esiste l’aggettivo circense, che non è legato solamente alla pista, ma ad un’estetica vera e propria.
Tutto corrisponde?
Io sostengo che la sorgente dello spettacolo sia una e trina: si parte dall’esigenza di far divertire, emozionare, rappresentare, fare tragedia o commedia, fare cose ordinarie e straordinarie. Il circo è tutto questo e con le sue suggestioni ha fatto grossi passaggi di consegna ad altri generi.

Fellini dirige Polidor ne "La dolce vita"

Ricorre spesso, in questa conversazione, il topos dello spazio dello chapiteau: ha un ruolo particolare?
Lo chapiteau, il tendone, è un archetipo dello spettacolo che si è legato soprattutto al circo del quale si è fatto prototipo e cassa di risonanza. Nei primi tempi capitava che, soprattutto in certi piccoli paesi, non ci fosse un luogo deputato alla proiezione di film, e così si allestiva uno spazio a mò di arena, se non anche un tendone.
Rimanendo nell’argomento cinema, dagli esordi con i primi esempi di illusionismo di Meliés, passando poi per Chaplin, arrivando a Fellini e al prossimo a uscire nelle sale Come l’acqua per gli elefanti: quanto scambio c’è stato?
Circo, cinema, teatro… sono tutti complementari e reciproci. Fellini è un regista che non ha frequentato il circo una volta e basta, come altri registi: in lui il circo, o lo stilema del personaggio circense, ricorre quasi in tutti i film, come la passerella ecclesiastica in Roma, o il finale (originariamente trailer) di Otto e mezzo, l’esibizione di Polidor nel tabarin (così si chiamavano un tempo i cabaret ndr) in La Dolce Vita. E poi La Strada o il film poco conosciuto per la televisione I Clowns, dove l’impronta circense è più marcata.
Poi Chaplin, il primo Hitchcock, Tod Browning, Cecil De Mille, Max Ophuls dal cui film Lola Montez Luca Ronconi voleva trarre uno spettacolo teatrale con la Melato come protagonista, ma nonostante l’impavidità di fronte a immani imprese, neppure a lui riuscì di costruire un circo finto in un teatro vero!
Molti dei nomi fatti, sia riferiti al teatro che al cinema, sono da intenditori; oggi si sa poco, e l’attuale panorama può apparire sconfortante se si guarda indietro. Lei, grazie al suo ruolo di docente universitario di storia e critica dello spettacolo, è a contatto di molti giovani: riscontra interesse nei ragazzi?
Molto, solo che l’unico problema è che sono poche le occasioni di far conoscere il passato. Certo, non tutto il passato riserva meraviglie da scoprire, ma c’è un forte interesse e una bella curiosità nei confronti delle belle cose. Quando faccio vedere certi filmati a lezione, o per gli esami, molti ragazzi poi mi dicono di essere rimasti sorpresi e affascinati.
Quindi riscontra dei buoni potenziali?
Si, recepiscono tutto nella maniera più corretta!
Stefania Ciocca

Maurizio Porro è nato a Milano il 10 luglio 1942. Al Liceo già recitava con gruppi scolastici. Poi si è laureato in filosofia ed ha trascorso un periodo di contatto molto intenso col teatro. Anzi, col Piccolo Teatro di Paolo Grassi. Qui è stato aiuto regista, ha tenuto i rapporti con le scuole, le pubbliche relazioni con i giovani ed ha gestito una stagione teatrale vera e propria per una rassegna di nuovi autori italiani.
Approda al Corriere della Sera nel 1971 e ci rimane fino al 1972. Per i due anni successivi lavora al Giorno, ma nel giugno del 74 torna al quotidiano di via Solferino da professionista, dove si occupa a tempo pieno dello spettacolo, come critico cinematografico ed esperto di musical. Scrive anche per testate specializzate sul cinema, come Anna a Linus, Ciak o Film TV.
Ha pubblicato vari libri, occupandosi di Joseph Losey (ed. Moizzi), Alberto Sordi (ed. Il Formichiere), Alida Valli (Gremese). Insieme a Giuseppe Turroni ha dato alle stampe un dizionario di luoghi comuni dello schermo, Il cinema vuol dire (Garzanti) e con altri colleghi ha fatto nascere, per Milano Libri, la “cineteca di Babele”, una storia del cinema “virtuale”. Ha curato il settore musical e rivista per la Enciclopedia delle arti del 900 edita da Baldini e Castoldi, Mélo il Dizionario del Cinema per Mondadori Electa. Fra i suoi numerosi lavori anche Il meglio di Aldo, Giovanni e Giacomo.