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Il saltimbanco
La qualità dell’arte e dell’avere un filtro artistico risiede nella splendida opportunità di poter vedere e interpretare nei modi più disparati ciò che si pone innanzi. Il circo, o la sua visione per essere più precisi, si è resa malleabile a seconda delle personalità che prima o poi si sono ritrovate davanti ai suoi artisti, ai suoi spettacoli: si è così passati dal realismo e lirismo al grottesco e provocatorio delle istanze artistiche più contemporanee. Tra queste due opposte (ma siamo sempre nella sfera del sentire e dell’interpretazione artistica) correnti di pensiero e rappresentazione si collocano moltissime sfumature, per esempio il realismo magico di Antonio Donghi.
Il giocoliere
Antonio Donghi (Roma 1897 – 1963) apprezzato in Italia proprio per la sua appartenenza alla suddetta corrente, ebbe i successi più consistenti grazie ai favori dei collezionisti privati e negli Stati Uniti, dove espose più volte nel corso della sua vita artistica e dove fu in grado di produrre una serie di lavori che gli furono appositamente commissionati.
Conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma e dopo la leva militare durante la prima Guerra Mondiale, il pittore iniziò la sua carriera artistica ufficialmente lavorando sin da subito nell’ambito delle Biennali (dapprima Roma, nel 1923, in seguito anche Venezia passando per le sale espositive più frequentate dalle personalità artistiche attive all’epoca) intraprendendo un percorso che gradualmente gli consentì di farsi conoscere da un pubblico sempre più vasto.
La svolta all’insegna dell’internazionalità si ebbe nel 1926 quando le sue opere vennero esposte nei musei di New York, Washington, Boston e Chicago.
Il termine “realismo magico”, utilizzato anche in letteratura dopo la pubblicazione del romanzo di Marquèz Cent’anni di solitudine, fu coniato dal tedesco Franz Roh e indica quell’elemento soprannaturale, magico e un poco onirico che emerge nella vita di tutti i giorni. La definizione di ciò che in pittura caratterizza il realismo magico la diede lo scrittore Massimo Bontempelli: “precisione realistica dei contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo, e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, attraverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta”.
Chaos
Ecco che forse per Antonio Donghi, di carattere schivo nonostante l’arridere dei successi nazionali e internazionali, le figure prese in prestito dal circo e dall’avanspettacolo furono una sorta di magico alter ego (più intuibile dall’opera Chaos): i suoi acrobati, giocolieri e Arlecchini sono soggetti isolati e tuttavia protagonisti unici in un ridotto spazio che li circonda. Non per questo si ha un senso di claustrofobia, solo un’apparente calma e magica malinconia, non pienamente spiegabile ma immediatamente intuibile.
Aria quasi metafisica e cura del colore, steso in maniera quasi piatta; non c’è tormento, ma rarefazione.
Il suo successo si basò soprattutto sui favori di affezionati collezionisti che non lo abbandonarono mai, neppure nel periodo dell’immediato dopoguerra, non facile per nessuno, in particolare per il pittore che di lì a poco si trovò suo malgrado invischiato nella lotta astrattisti vs realisti. Nonostante ciò continuò a produrre opere dallo stile ossessivamente preciso, lontane dalle mode artistiche coeve, e ad insegnare (la carriera di docente di disegno l’aveva intrapresa già a partire dal 1936) fino all’anno della sua morte, avvenuta improvvisamente nel 1963.
Stefania Ciocca