di Flavio Michi
Quest’intervista è parte del progetto Il circo italiano a Monte Carlo, che racconta i vincitori tricolore della più importante manifestazione circense al mondo. Scopri tutti i video, gli articoli e le interviste.
Willer, appartieni a una grande tradizione di acrobati.
Gli italiani fino a qualche tempo fa erano fra i più forti acrobati a terra. Noi con la famiglia eravamo nell’arte da diverse generazioni. Durante il boom economico italiano eravamo con i Casartelli, che ancora non usavano il nome Medrano. La mia famiglia è cresciuta lì. All’epoca eravamo insieme ai Macaggi, con Lucetto e Alfio. Poi, negli anni Sessanta ci siamo trasferiti all’estero. Abbiamo fatto una prima stagione in Norvegia, al Circo Arnardo. Poi nel 1969 da Pinder, in Francia. Nel 1970 abbiamo avuto l’opportunità di fare un primo ingaggio da Knie. Di seguito per un anno in Spagna da Angel Cristo. Insomma, devo dire che abbiamo avuto l’opportunità di girare alcune fra le più importanti case dell’epoca. Del resto, era un bel colpo d’occhio. Eravamo in sei in pista: io, mio papà Ivano, gli zii Lucio e Itala, mio fratello Alex, mio cugino Ben Hur.
Intanto però c’era stata la prima partecipazione al Festival di Monte Carlo nel 1979.
È stato molto bello. Eravamo in un bel momento di forma con un numero di acrobatica di gruppo molto forte, che appunto andava per la maggiore nel mercato di quegli anni. In effetti eravamo già stati invitati l’anno precedente ma avevamo rifiutato per un infortunio. Poi arrivò il momento. Eravamo tutti molto emozionati, ma io anche molto giovane. Avevo 20 anni ed ero fidanzato con una bella ragazza svizzera che poi è diventata mia moglie. Venne a trovarmi al Festival e andai a prenderla a Nizza all’aeroporto. Quel giorno avevamo le prove, ma c’era traffico e rimanemmo fermi per strada. Sono arrivato in ritardo e sono stato rimproverato, diciamo così. Insomma, per colpa mia non abbiamo potuto utilizzare al meglio il tempo delle prove. Eppure, è andata benissimo. Magari quel piccolo inconveniente ci ha portato fortuna, chissà. Il numero con tutti quanti andò avanti ancora un paio d’anni fino alla scomparsa di mio padre Ivano, nel 1981. Avremmo dovuto andare a Las Vegas, ma purtroppo lui se ne andò poco prima della partenza. Quanto dolore. Abbiamo lavorato per onorare la sua memoria.
Poi avete preso strade diverse.
Dapprincipio siamo stati di nuovo in Italia, per due stagioni al Circo Americano: 1983/1984 e 1984/1985, con il Natale a Firenze e a Roma. Lì ci siamo divisi: mio zio Lucio è rimasto con i Togni e noi tre ragazzi siamo andati al Moulin Rouge. Nel celebre locale parigino facevamo l’acrobatica in tre con grande successo. Visto il quale poi ci hanno chiesto di restare con il Chicago, una performance più comica dove interpretavamo la parodia di una rapina. E così, grazie a quest’altro numero siamo rimasti lì ancora per sette anni.
Come è avvenuto il passaggio da acrobata a ventriloquo.
Al Moulin Rouge e a Parigi eravamo ormai di casa. Credo che il nostro sia stato uno dei contratti più lunghi di quel locale prestigioso. Man mano che passavano gli anni avevamo tutti messo su famiglia e stavamo pensando a cosa fare dopo. Alex, mentre stava ancora lavorando, ha intrapreso la carriera di agente. Ben Hur, che aveva sposato una ballerina, aveva pensato di rimanere al Moulin Rouge a fare il cancan. Io, invece, ho iniziato a fare il ventriloquo. Eravamo alla fine degli anni Novanta. Ho iniziato scherzando, in camerino, prendendo in giro gli altri. Per gioco, senza sapere come potesse andare a finire. Certo, avevo intenzione di pensare al mio futuro. Non volevo dipendere da altri, ma allo stesso tempo non volevo più spaccarmi le ossa. Dopo tanti anni di sacrifici, prove, allenamenti. Pensavo a numeri come il pickpocket, mimo, ventriloquo, che con pochi bagagli possono girare il mondo. Già anni prima, ingaggiati con l’acrobatica da Busch Roland, in compagnia c’era Charlie Borra. Noi provavamo sempre, era un lavoro duro, e mi dicevo: “Ma guarda questo che entra in pista con la sigaretta, ruba qualcosa qua e là e va via”. Mi son detto: “Qui c’è qualcosa che non va. Anch’io voglio fare un numero come questo”. Anche vedendo il ventriloquo Fred Roby mi dissi: “Queste sono le cose su cui puntare”. Del resto in generale nella comicità si può solo migliorare andando avanti nel tempo, mentre l’acrobata può solo peggiorare con gli anni.
Una scelta oculata.
Ma al momento non avevo idea di come sarebbe andata. Tutti mi prendevano in giro: “Ma cosa fai? Lascia perdere…”. Me ne hanno dette di tutti i colori. Il primo vero contratto è stato in Australia, in un grande locale dove avremmo voluto essere scritturati anche con l’acrobatica di famiglia. Mi contattarono e io pensavo che volessero l’acrobatica. Mi dissero che avevano visto il video del ventriloquo e che volevano quello. Così, in Australia, ho fatto la mia prima esperienza, per ben due anni. Lavoravo con un pupazzo dalla forma di uccellino, poi per cambiare ho scelto un topo. Anche nel ventriloquismo, come nell’acrobatica, è importante la scelta dei partner.
Cosa è successo poi?
Tornando dall’Australia sono stato in molti locali qui in Europa e mi sono fatto l’idea che potesse funzionare anche in circo. Molti pensavano che non fosse una buona idea, ma contattai Louis Knie. Vide il video, gli piacque e mi scritturò. Da quella volta non ho più smesso di lavorare nei circhi. E devo dire che ho avuto l’opportunità di scritture in complessi importanti, dove ti metti sempre in gioco e devi dare sempre il meglio. Da Arlette Gruss a Barum, da Krone a Knie, dove ho lavorato per ben tre volte. Certo, tutto questo girare ti impone di imparare molte lingue. Ho presentato il numero in sette diversi linguaggi: italiano, spagnolo, francese, inglese, tedesco, russo e cinese. Certo, ho avuto la fortuna di avere molte conoscenze nel mondo della professione, che mi hanno aiutato dandomi fiducia. Sono state importanti e ringrazio tutti. Ma ovviamente poi devi metterci del tuo, non devi deludere i tuoi estimatori. Al circo ti devi guadagnare tutto in pista. A volte mi capita di incontrare qualcuno che mi dice: “Sai, io ho conosciuto tuo padre, che faceva l’acrobata”. “No, ero io!”.
Quando è arrivato l’invito della famiglia principesca?
Ero proprio da Knie, e un giorno la Principessa Stéphanie in persona, per altro una grande persona, mi chiese se volessi partecipare al Festival di Monte Carlo nel 2004. Mi ha fatto tanto piacere. Credo di avere avuto una fortuna, fra le altre: l’esperienza. Avere girato tanti anni in tante case importanti con l’acrobatica mi ha aiutato ad avere il sangue freddo per affrontare tour con il ventriloquo. E anche a Monte Carlo, esserci già stato ti aiuta a tenere almeno le ginocchia ferme. Perché di norma la pista di Fontvieille incute soggezione, soprattutto per artisti della comicità. Io, grazie a tutti questi anni di lavoro, a Monte Carlo sono andato più che altro per divertirmi. Invece è andata bene e ho anche portato a casa un Clown di Bronzo. Sono poi tornato nel 2016 per la quarantesima edizione, quella con solo artisti fuori concorso.
La bravura è ereditaria?
Nella comicità non sei mai abbastanza bravo. C’è sempre qualcosa da apprendere, da migliorare. Ancora oggi imparo negli spettacoli qui all’Europa Park. Nel timing, nel come ti muovi, come ti comporti. La comicità si basa su questo, non tanto su quello che fai. La stessa cosa potrebbe farla un altro e magari nessuno ride. Il comico deve percepire come stanno andando le cose in pista e avere la capacità di saper cambiare al volo, cogliendo la risposta del pubblico. Per esempio, mio figlio Dustin ha trovato la vena giusta ed ha l’intuizione del timing. Questo è fondamentale. Mi sento in dovere di ringraziare la famiglia Casartelli che credette in Dustin per il suo numero di verticalismo e poi lo ha spronato ad andare avanti col personaggio di Copperlin. La Ghisi mi disse: “Lasciamolo fare. Vedo che è bravo in pista insieme a Lorenzo (Carnevale, ndr)”. Certi incoraggiamenti all’inizio della carriera sono fondamentali. E così è andato avanti ed ora è da Knie per la seconda volta, con un esito straordinario. Chissà, un giorno, magari, potrebbe arrivare anche per lui la chiamata a Monte Carlo, sarebbe davvero il segno di una continuità artistica e di rapporto con il Principato che si trasmette da generazione in generazione. A conferma dell’importanza di questa straordinaria manifestazione.