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La magia del circo per un grande omaggio a Cechov

Donka

 

C’è qualcosa di Cechov in ciascuno di noi, dice lo spot che gira sul sito del Piccolo Teatro Streheler. Quello che va in scena domani (e fino al 15 maggio) è la prima nazionale: Donka. In russo Donka significa piccolo sonaglio. “Si appende alla canna da pesca e suona quando un pesce abbocca. Cechov adorava pescare, la pesca era per lui una forma di abbandono alla meditazione”. Così introduce alla sua nuova creazione di nouveau cirque, Daniele Finzi Pasca, che come tutti sanno ha firmato spettacoli notissimi e di grande successo con Cirque Eloise e Cirque du Soleil. Un personaggio davvero poliedrico: regista, autore, coreografo, light designer e clown.
Donka lo descrive come un turbinio visionario che mescola mimo, danza, musica, clownerie e acrobatica. Per disvelare la magia dello stupore e dare forma agli enigmatici silenzi di Cechov, Finzi Pasca si affida al linguaggio del circo e la scommessa mette i brividi. Con questo registro si immerge nella vita di Cechov, nei suoi testi e nei suoi diari, decifrando note e appunti, per tirarne fuori un’opera che accarezza il cuore.
Donka. Una lettera a Cechov, scritto e diretto da Daniele Finzi Pasca, è una produzione di Teatro Sunil e Chekhov International Theatre Festival di Mosca (in coproduzione con Théâtre Vidy, Lausanne e Inlevitas – Finzi Pasca & Hamelin Company). Le musiche sono di Maria Bonzanigo (la musica orchestrale è stata registrata dalla Sergei Rakhmaninov Symphony Orchestra (Mosca) presso il Mosfilm “Tonstudio”), scenografie Hugo Gargiulo, costumi Giovanna Buzzi, disegno luci e coreografie dello stesso Daniele Finzi Pasca.
Gli interpreti sono Moira Albertalli, Karen Bernal, Helena Bittencourt, Sara Calvanelli, Veronica Melis, David Menes, Beatriz Sayad, Rolando Tarquini.
Per introdurci nelle creazioni di Daniele Finzi Pasca proponiamo l’intervista realizzata da Alessandro Serena – dal titolo “Angeli in palcoscenico. Il teatro acrobatico” – quando il regista presentava Nebbia.

Daniele Finzi Pasca


Qual è stato il suo primo incontro con il circo?
Dalle mie parti, in Svizzera, il celebre Circo Knie, arrivava (ed arriva) ogni anno a cavallo di novembre e dicembre, nel periodo delle prime nevicate. Si muoveva per treno. Gli animali venivano scaricati dai vagoni e camminavano lungo le strade della città per arrivare al luogo dove era montato il tendone. Veder passare questo serraglio, sentire l’arrivo del circo, la sua partenza sono tra i ricordi di infanzia più belli. Il senso di un vagabondare di gente strana. Per me il circo è come se fosse venuto dall’oriente, da terre magiche. È sempre stato un po’ come il portatore di qualcosa di esotico, inaferrabile e allo stesso tempo profondamente umano. Per me il circo è semplicità. Quello che faccio non è circo ma gli è molto vicino.
In cosa risiede l’essenza di uno spettacolo circense?
Difficile dirlo. Quello che viene chiamiato circo è un’invenzione recente. Quando Astley codificò questa forma poco più di duecento anni fece convergere in un cerchio le discipline equestri, la comicità e le acrobazie. Ma gli spettacoli di cui mi occupo si possono definire piuttosto di teatro acrobatico. E l’acrobazia in sé stesssa è una materia antica, primordiale, che ha permesso all’uomo di tentare di reinterpretare la realtà, sfidarla, conoscerla. Da questi tentativi derivano i giochi di equilibrio, la sfida con le belve feroci, il desiderio di volare, di competere con le leggi della gravità. L’acrobazia ci permette di comprendere e danzare sulla scena delle cose, dei significati, che in qualche modo possiamo chiamare “misteri”. Mi piace pensare che per l’umanità la figura dell’acrobata corrisponde a ciò che per gli dei è l’angelo. Gli dei inventano gli angeli per dialogare con gli umani in un mondo intermedio, in un cielo a metà. Noi per dialogare con gli dei, inventiamo le arti degli acrobati e gli acrobati quali interpreti dei nostri desideri.
Il circo può “raccontare”?
Se col termine “circo” intendiamo lo spettacolo classico sotto il tendone con animali, non lo so. Il mio teatro acrobatico racconta sempre qualcosa. Un acrobata che sale sulla scena racconta con intensità qualcosa di magico e mitologico. Non una storia lineare, ma per associazione di idee. E il virtuosismo dell’acrobata può in qualche modo mettere lo spettatore in una situazione di totale apertura, perché ti sorprende. Se in quel particolare momento uno riesce a dipingere un gesto, una parola, un’allusione, troverà un terreno propizio. Quindi i miei spettacoli sono fatti per raccontare qualcosa, anche se qualcosa di impalpabile, trasparente.
Credo che la materia umana degli acrobati sia qualcosa di particolare. Sono uomini della scena che si specializzano su singole azioni che continuano a cesellare per anni per perfezionare tre minuti di numero. Un approccio veramente particolare, dei perfezionisti di un’azione minimale ma complessa, a volte azzardata, ai limiti del possibile.
Ma a me piace soprattutto la fragilità, il gesto che non si compie totalmente, la caduta, l’incertezza, in particolare se raccontata da chi è capace di gesti incredibili. Quando il grande acrobata sa danzare la propria fragilità, ritorna ad essere un eroe umano in un mondo dove siamo bombardati da eroi invincibili, dominanti. L’acrobata clown è l’eroe perdente, straordinario nella sua eterna sfida, nel suo perdere, inciampare, e riprovare a rialzarsi.
Nebbia è uno spettacolo maturo.
Per me Nebbia ha avuto diverse fortune. Fra tutte è di avere nel cast tutti acrobati con i quali avevo già fatto almeno uno spettacolo. Mi sono ritrovato con amici con i quali avevo già stabilito un modo di comunicare. Questo aiuta molto perché il linguaggio teatrale a volte ha gradi di astrattismo che lasciano stupiti i non addetti ai lavori. Tutte le cose che un regista dice quando cerca di correggere un gesto per renderlo più sincero, bello, equilibrato, giusto. La complicità esistente con il cast ha quindi permesso che Nebbia fosse sin dall’inizio uno spettacolo compiuto, ovvero nel quale abbiamo dato tutte le immagini che avevamo in animo di dare. Questa è stata una delle cose più emozionanti di questa avventura, ritrovarsi il giorno della prima insieme agli altri creatori e artisti, di fronte ad uno spettacolo che avevamo voluto così. Proprio lo spettacolo che mi ero immaginato.
Come crea i propri spettacoli?
Da un bisogno strano, non un furore o un’esigenza impazzita, piuttosto come se mi sentissi incaricato di cercare di costruire piccole storie che mi possono curare ed aiutare a scoprire angoli strani della mia memoria. Che poi alla fine dei conti è sempre una memoria che uno si reinventa o crea, perché della realtà c’è proprio poca certezza, piuttosto è bella la certezza delle cose sognate.
Lei ha creato su palco, pista o stadio. Dove si trova più a suo agio?
In realtà io provengo da un teatro intimista. Con la compagnia del Teatro Sunil abbiamo creato all’inizio degli anni Novanta spettacoli per un solo spettatore. Come Icaro, il monologo che da anni porto in giro per il mondo, e che esplora la possibilità che il teatro ha di guardare occhi negli occhi un singolo spettatore, di poterlo accarezzare, stargli vicino, abbracciarlo, toccarlo, schiaffeggiarlo. Mi sono poi trovato, in un modo un po’ sorprendente, a dirigere progetti di creazione più complessi, ma in qualche modo tutto mi riporta alla stessa metodologia che riassumo con un’analogia dedicata alla vela. Su una barca a vela, piccola o grande che sia, al capitano è dato di cercare di capire quale sarà il vento domani, interpretare quello di oggi ed intuire la rotta migliore. Al comando di una barca piccola il capitano ha ampia libertà di azione, vira quando e come vuole. In una più grande, in un translatlantico, la virata costa tanta energia e sforzo per tante persone, non se ne possono fare molte. Quindi cambia in qualche modo la strategia di guida, ma il dialogo con il vento, che avviene in una strana solitudine, rimane uguale. Barca piccola o grande, spettacolo piccolo o grande.
Ma ogni spettacolo è sempre un’avventura diversa. Ogni compagnia con la quale collabori, piccola o grande, ha delle particolarità, delle belle cose che fanno sì che la collaborazione ti arrichisca sempre, ti porti avanti a scoprire cose che non immaginavi.
La drammaturgia è decisa assai prima o può mutare molto durante le prove?
Nella costruzione dello spettacolo si può procedere in varie forme. Chi procede modellando, quindi aggregando creta che uno può aggiungere e togliere, chi invece lavora con la pietra, con il marmo che scolpisce. Nel modellaggio uno ha in mente qualcosa e può continuare ad approssimarsi, mettere, togliere, rimettere come nel teatro che ha un approccio legato all’improvvisazione. Chi lavora in un modo architettonico è più strutturato dal punto di vista drammaturgico. È come chi scolpisce il marmo, si trova di fronte ad un blocco e dal primo colpo sa già dove sta andando. Il mio procedere è simile a questo approccio. A volte scrivo, a volte realizzo dei grandi storyboard nel quale inserisco immagine per immagine la sovrapposizione di mondi. Quando comincio le prove so già dove sto andando, lo intuisco, lo vedo. Poi durante il viaggio uno scopre una quantità di cose che non immaginava e questo è il bello del lavorare con gli altri, che è una delle cose magnifiche del teatro, non si è mai soli. È sempre un lavorare insieme agli altri.
Ma creare uno spettacolo non è dirigerlo, per me è vederlo, immaginarlo, disegnarlo. Solo poi lo dirigi, lo metti insieme. È come andare al mercato e cercare la giusta combinazione di ingredienti, verdure, carni, è la prima fase preziosa ed importante, poi ci si mette a cucinare. Quindi la creazione non è nella regia ma prima, nell’ideazione.
Il cerchio è una delle forme arcaiche a cui fa riferimento l’uomo.
In realtà non ho mai lavorato in circolo, anche con il Cirque du Soleil, in Corteo, ho spezzato la pista in due rendendola con una gigantesca passarella. Il cerchio non l’ho mai ancora davvero sperimentato. Prefersico, forse perché vengo da una famiglia di fotografi, lavorare sul gioco di profondità, su piani che si sovrappongono. Quindi ho bisogno di un punto di fuga, di una prospettiva, di uno slancio nella profondità. In generale spezzo tutto quanto possa sembrare una pianta centrale per creare una visione che mi permetta una profondità.
Quali sono le discipline del circo che la interessano di più?
Nel mondo dell’acrobazia mi interessa quasi tutto, sia il gesto lento che quello sospeso. Amo molto l’equilibrio e le linee del corpo che si spezzano prendendo linee un po’ astratte, quasi impossibili. Mi piace vedere volteggiare per aria oggetti e persone. Adoro le espresisoni della forza e della rapidità. Ma alla fine dei conti quello che più mi affascina è la clownerie, la capacità di usare tutto quello che ho detto in modo un po’ farabutto, dissacrante, allegro e tragico, profondamente tragico. Ecco, amo dell’acrobazia il risvolto clownesco.
Una delle caratteristiche del circo è il gesto sincero. Un attore recita, un clown è.
Sono totalmente d’accordo. Sicuramente la sincerità è uno dei fatti essenziali. In Nebbia un personaggio dice: “Parliamo un po’, cari amici, della verità.” E poi osserva questo strano paradosso che può capitare guardando una rosa bella, vera, ci viene da dire: “Guarda che bella, sembra finta…” Mentre a volte diciamo: “Guarda che bella, sembra vera”. Ma la verità, il vero, non serve in scena. Non si può ammazzare un attore ogni spettacolo. E comunque sarebbe inutile, perché un vero morto non sembra morto. Così come spesso il vero sangue non sembra vero. È troppo poco rosso, troppo scuro, da lontano non si riconosce, come invece certi liquidi di un bel rosso cangiante. Quindi il vero non serve sulla scena, sincero sì. La sincerità è alla base della leggerezza e sulla scena ce n’è bisogno.

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