Leggo spesso, in questa sede, l’affermazione che “gli animali nel circo sono trattati bene”. Non è lontana dalla realtà però va approfondita, sennò si continua a restare nel vago. Certo oggi gli animali nei circo hanno cibo a sufficienza e cure veterinarie quando è il caso, cioè quanto basta a garantire un benessere fisico. Ma ciò che garantisce un’esistenza senza traumi è il benessere psicofisico e di questo oggi vorrei parlare.
Sono in palese malafede gli animalisti che della vita in natura tracciano una visione da paradiso terrestre. La zebra che corre per la savana libera e felice sovente corre così per sottrarsi alla prospettiva poco felice di finire in bocca al leone. In quel caso è invece infelice? La prima regola di chi vuol capire qualcosa degli animali è di non attribuire loro un vocabolario umano. Anni fa, quando dirigevo “Natura Oggi”, ho pubblicato un articolo in cui si esaminava con criteri scientifici la vita dell’erbivoro destinato dalla natura a essere preda continua dei carnivori. Un’esistenza da suicidio, dal nostro punto di vista.
La gazzella mangia, beve, corteggia, e qualcuno può sempre essere nascosto dietro la macchia della savana in attesa di farne una bistecca. Ma la vigilanza continua non è in lei motivo di trauma continuo, è solo una componente del suo mestiere di restare al mondo. Quello chiede, e altri pensieri non ha. Ha una destinazione nella sua nicchia naturale e la persegue dal primo all’ultimo minuto. Altro è il discorso se trasferito a una vita in cattività. Lì va benissimo il cibo, lì va benissimo l’assistenza veterinaria, ma questo può non bastare. Faccio l’esempio della mia gatta Lulù, che vive con me da quasi 20 anni. Quando era più giovane, ogni tanto si scatenava in salotto balzando da una poltrona al televisore e poi sul pianoforte come fosse impazzita. Non lo era. Si chiama “attività sostitutiva” quella che il felino domestico compie a compensazione fisica di un lungo ronfare fra le poltrone. S’inventa, insomma, un pezzo di bosco in casa.
Nel mondo del circo, la compensazione allo stazionamento in gabbia all’animale la deve dare l’uomo che ha cura di lui. Nel caso dei felini, l’uomo deve garantire stimoli sostitutivi costituiti da diverse gratificazioni: il movimento che si sviluppa durante le prove, la gratificazione di un buon rapporto con l’essere umano visto come dominante, la cadenza giornaliera che garantisce passaggi dal lavoro al riposo fino all’esito finale del cibo. E a proposito del cibo: avete mai assistito al pasto di un branco di leoni nella savana? Io sì. Niente, vi assicuro, che assomigli a un invito a cena al Quirinale del presidente Napolitano. Il grande prevarica sul piccolo, ognuno arraffa quel che può. I leoncini sono sostentati con il latte di mamma leonessa, o anche di una zia, nei primi mesi, ma poi devono essere lesti ad arraffare le briciole, pena il rischio di restare a pancia vuota. In uno stato di cattività in cui si osservano regole elementari, il leone adulto ha la sua dose di carne di 6-7 kg. 6 giorni su 7 (per il settimo il veterinario prevede soltanto latte). Riusciamo, noi umani, a percepire la felicità di quel felino che lappa con calma il suo bisteccone senza timore che qualche confratello (e sai che fraternità, specie fra i felini maschi!!) glielo porti via? L’essenziale, oggi, è che l’ammaestratore – e non più domatore, vocabolo del passato giustamente cancellato dal presidente Palmiri – sia consapevole di questo suo primo dovere: garantire al suo animale una “attività sostitutiva” rispetto a quella prevista in natura. Se no, è vita animale davvero prigioniera in una dimensione in nulla rispondente alle primarie esigenze. E’ vita in scatola. Una volta, nei circhi, queste cose non si dicevano anche perché non le dicevano neppure gli scienziati (tranne qualche rara eccezione). Oggi è cultura comune. Il mio dispiacere è che non tutti e non sempre, sotto il tendone, l’abbiano recepita.
Ruggero Leonardi