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Paolo Rossi

di Alessandra Borella e Alessandro Serena

Paolo Rossi ha appena terminato al teatro Vittoria di Roma (prossima tappa il Teatro Bellini di Napoli dal 5 al 10 aprile) una “umile versione pop” del Mistero Buffo di Dario Fo, che gli ha dato la sua benedizione. In un continuo e dinamico cambio di registri e stili, l’attore gioca con il pubblico, si diverte e si dispiace, si racconta e ci racconta della figura di Cristo e di quanto ne riferiscono i Vangeli, ufficiali e apocrifi, con incursioni nel teatro medievale e aneddoti intrecciati ineluttabilmente alla nostra attualità. Fedele alla sua visione del teatro “impegnato”, Rossi non si esime da una graffiante satira sulla società contemporanea, in uno spettacolo di cabaret che fonde passato e presente, cultura alta e bassa.
Un vero giullare/mimo, un mattatore del palcoscenico. “Un comico di razza”, come il suo maestro Dario Fo che lo fece esordire ha dichiarato, e che “(…) piccoletto com’è, sulla scena cresce, cresce… Si ingigantisce a vista sotto gli occhi dello spettatore”. E infatti Paolo Rossi tiene egregiamente la scena da solo per un’ora e mezza, ad eccezione di Emanuele Dell’Aquila che lo accompagna alla chitarra e gli fa da spalla comica, per poi cederla ad una bravissima Lucia Vasini nel finale: interessante la scelta registica della spagnola Carolina Della Calle Casanova, che mette in scena i tre mentre concertano la loro personale interpretazione e rappresentazione della Passione di Cristo (in accordo con la tradizione teatrale dei Mistery Plays), regalandoci momenti esilaranti di “teatro nel teatro”.
In bilico tra il serio e il faceto, il suo show inchioda il pubblico alle poltrone per quasi tre ore. E dopo averlo visto per la seconda volta, riesco a farmi accordare una breve intervista tra lo spettacolo pomeridiano e quello serale. Seduto da solo in platea, fino a poco prima esaurita, mi accoglie sorridendo, e mi regala uno di quegli sguardi magnetici di cui si serve sul palco per catturare anche lo spettatore in ultima fila.
La sua comicità molto fisica e visuale riconduce alla clownerie, e lei ha vinto il premio Grock. Inoltre, quando Dario Fo, che lei considera uno dei suo maestri, vinse il Nobel, il critico Mario Verdone disse che quel riconoscimento premiava tutti i clown del mondo. Il clown è un’icona di riferimento per lei, si sente un po’ clown?
Sì. Certo. Il clown è parente del comico dell’arte, dell’attore brillante, dell’Arlecchino. Sono tutti parenti. Si esibiscono in luoghi diversi, hanno diversi caratteri, diversi stili, ma fanno tutti parte della stessa famiglia, alla quale mi sento di appartenere.
Qual è il ruolo del clown nella società moderna?
Il clown, così come il giullare, rappresentano una forma di comicità popolare, che risale alla tradizione dei misteri teatrali, raccontati per la strada, in modo itinerante. Questo aspetto, unito alla comicità, sono armi potenti per comunicare e raggiungere le persone. Il clown non deve solo far ridere, deve far riflettere. E sul palco arriva una minima parte di quello che si è preparato con fatica. L’attore comico è sempre un po’ clown e proprio i clown insegnano che la comicità nasce da un atto di violenza sulla realtà. Bisogna scavare nell’anima, sovvertire le aspettative dello spettatore ed è per questo che a volte ancora spaventa, perché attraverso la comicità si possono toccare delle corde profonde.
Una sorta di teatro epico?
Sì. Io lo definirei più “sociale”. La mia satira politica non è parodistica, è una versione personale e originale di pensiero critico. Il teatro deve impegnarsi ed essere in prima fila per raccontare i problemi della società odierna.
Lei ha messo spesso l’accento su un ritorno alle “origini”, alla “strada”, anche nel suo attuale spettacolo. Che importanza ha per Paolo Rossi che il teatro torni a parlare a molti e non a pochi, tornando ad essere una forma di spettacolo più popolare?
Lo stile nasce da esigenze storiche ed economiche, non solo dall’idea artistica. Lavorare per strada da un lato ti rende indipendente, e dall’altro però può avere origine dal fatto che non hai alternative, non puoi lavorare al chiuso perché non hai accesso ai luoghi deputati. La strada ti rende libero di mescolare gli stili, di sperimentare la tecnica e la contaminazione artistica e di comunicare in modo più diretto e autentico. Il teatro non deve isolarsi, deve ricordarsi che è dalla strada che è nato.
E lei per strada ci ha lavorato per davvero, girando con un tendone e con lo spettacolo Il circo di Paolo Rossi. Cosa pensa del circo?
Il nomadismo che contraddistingue il circo è un aspetto che mi ha sempre affascinato. Al circo ci tornerei subito, è stata un’esperienza bellissima, emozionante, vera, autentica. Il circo è un posto magico e la sua forma itinerante che si ricongiunge al passato e al teatro delle origini lo rende speciale, una vera tradizione. Certo la tradizione del circo è il pericolo, e anche fare l’attore è pericoloso, si cammina sul precipizio e non bisogna perdere i fili del personaggio. Mi piace ricordare una frase del grande artista circense Karl Wallenda (il famoso equilibrista che cadde, e morì, nel 1978 durante una traversata sul filo a Puerto Rico all’età di 73 anni, ndr): “La vita è stare sul filo, tutto il resto è attesa”.
A proposito di tradizione, che cosa dovrebbe fare secondo lei il circo per innovarsi mantenendo la tradizione? Il circo classico italiano ha una struttura che si compone di numeri con acrobati e ammaestratori di animali alternati alla clownerie. Le pare una struttura interessante?
Una struttura che forse oggi, a volte, perde il suo fulcro centrale, il pericolo. Io mi ricordo del circo quando non c’erano reti di protezione per gli acrobati. Non c’è il trapezio senza rete? Allora bisogna rischiare il vuoto con un’idea nuova, con una struttura orchestrata anche da un punto di vista registico diverso e più approfondito. La fatica non è fare lo spettacolo ogni sera, ma trovare le idee e lavorarci per molto tempo prima di andare in scena.
Innovazione significa faticare e rischiare per trovare idee nuove, che inchiodino lo spettatore. Ad esempio il cambio di registro, stile, ritmo, non importa se lo fa un circense in teatro o un attore nel circo. Parlo di struttura dello spettacolo, che necessita di continui salti mortali veri o metaforici, per stimolare l’attenzione che si sa, non dura più di tre minuti, il tempo di uno spot pubblicitario.
Ci sono figure di artisti comici del presente o del passato cui lei fa riferimento?
Ho lavorato con grandi attori e registi, anche non comici. Giorgio Strehler, Cecchi, Fo sono tutti grandi maestri. Se dovessi dirle un attore comico, un mattatore che stimo moltissimo e che considero un punto di riferimento, direi Roberto Benigni. Oggi (16 marzo ndr) è venuto a vedere lo spettacolo e mi ha fatto i complimenti. Difficile che un comico vada a fare i complimenti ad un altro comico. E che Roberto Benigni sia rimasto con me un’ora dopo lo spettacolo in camerino per me è come vincere la medaglia d’oro.
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